ISAAC ASIMOV

LE GRANDI STORIE DELLA FANTASCIENZA 3

1941

(Isaac Asimov Presents

The Great Science Fiction Stories 3: 1941, 1980)

A cura di ISAAC ASIMOV & MARTIN H. GREENBERG

 

Indice

 

Introduzione

I Topi meccanici di Maurice A. Hugi (Eric Frank Russell)

Ed egli costruì una casa deforme di Robert A. Heinlein

Gabotte di Theodore Sturgeon

Il razzo del 1955 di C. M. Kornbluth

Loro di Robert A. Heinlein

La fine dell'evoluzione di Robert Arthur

Dio microcosmico di Theodore Sturgeon

Jay Score di Eric Frank Russell

Universo di Robert A. Heinlein

Bugiardo di Isaac Asimov

Il tempo vuole uno scheletro di Ross Rocklynne

Le parole di Guru di C.M. Kornbluth

L'altalena di A.E. Van Vogt

Armageddon di Fredric Brown

Adamo e niente Eva di Alfred Bester

Plesso solare di James Blish

Cade la notte di Isaac Asimov

C'era uno gnomo di Henry Kuttner e C. L. Moore

Per qualche millennio in più di Robert A. Heinlein

Snulbug di Anthony Boucher

Aldilà, Inc. di Lester Del Rey

 

Introduzione

 

Nel mondo esterno alla realtà, fu un altro anno estremamente disgraziato. Il 9 febbraio il maresciallo Rommel condusse le sue truppe dall'Italia in Africa, da dove presero subito a rintuzzare l'offensiva britannica che doveva proteggere il Canale di Suez. Per tutto l'anno gli attacchi degli U-Boote tedeschi crebbero di intensità. Il 13 aprile, l'URSS siglò un accordo col Giappone promettendo la neutralità e consentendo così tacitamente la continuazione dell'espansionismo giapponese. La Casa dei Comuni fu distrutta da un'incursione aerea tedesca il 10 maggio, lo stesso giorno che Rudolf Hess compì il suo volo per la misteriosa missione di «pace» in Inghilterra. Il 24 maggio, la corazzata tascabile tedesca Bismarck affondò l'incrociatore inglese Hood e fu affondata tre giorni dopo dalla Marina Britannica.

Per niente inaspettatamente, con l'unica eccezione dei russi, la Germania invase il 22 giugno l'Unione Sovietica, compiendo così una delle mosse più fatali di tutta la guerra; entro la fine del mese aveva assunto il controllo di gran parte della Russia europea e dell'Ucraina. L'11 agosto, Churchill e Roosevelt firmarono la «Carta Atlantica» a bordo di una nave nell'omonimo oceano. L'8 settembre, Leningrado venne circondata ed ebbe inizio un lungo assedio... entro il 16 ottobre le armate tedesche erano a novanta chilometri da Mosca. La controffensiva russa ebbe inizio il 29 novembre.

Il 7 dicembre, «un giorno che passerà all'infamia», aerei giapponesi provenienti da portaerei attaccarono Pearl Harbour e le circostanti installazioni militari. Il giorno dopo gli Stati Uniti dichiararono guerra al Giappone e l'11 la dichiararono alla Germania e all'Italia, un giorno dopo che il Prince of Wales, britannico, e il Repulse erano stati affondati nell'oceano Indiano. Hong Kong si arrese ai giapponesi il giorno di Natale.

Nel corso del 1941, Edmund Wilson pubblicò il suo importante studio sul pensiero utopico e socialista, To The Finland Station. Il «Progetto Manhattan» che doveva portare alla bomba atomica fu iniziato alla fine dell'anno. Léger dipinse il suo «Tuffatori su sfondo giallo». Bruce Smith, dell'Università del Minnesota, vinse il Trofeo Heisman come miglior giocatore di football universitario. Benjamin Britten compose il suo Concerto per Violino. Fu pubblicato La Caduta di Parigi di Ilya Ehrenburg. Brecht produsse il suo Madre Coraggio e i suoi figli. Il Minnesota si riqualificò Campione Nazionale del Football Universitario. I film più notevoli dell'anno comprendevano Citizen Kane, How Green Was My Valley, The Big Store (l'ultimo fdm dei fratelli Marx) e The First of the Few, uno degli ultimi fdm di Leslie Howard, che doveva morire nel cielo della Manica.

La popolazione degli Stati Uniti ammontava a 131.000.000 di abitanti; quella cinese era valutata in 450.000.000. Il record della corsa su miglio era ancora fermo a 4'06"4'", stabilito nel 1937 da Sydney Wooderson, inglese. Nathaniel Micklem pubblicò The Theology of Politics. L'Ouverture Scapino di William Walton venne eseguita per la prima volta. Bobby Riggs vinse il Campionato dell'Associazione Tennistica degli Stati Uniti. F. Scott Fitzgerald pubblicò The Last Tycoon. Blithe Spirit di Noel Coward fu un successo colossale. Whirlaway, con Eddie Arcaro, vinse il Kentucky Derby, mentre il Wisconsin ebbe la miglior squadra di basket. Negli Stati Uniti circolavano 38.800.000 auto private. Gli Yankees vinsero il campionato contro i Dodgers, Ted Williams si qualificò con la bellezza di 37 home runs e un'incredibile media di 0,406, ma Joe Di Maggio vinse il Premio per il Più Prezioso Giocatore della Lega Americana. Fu pubblicato Il Canto di Bernadette di Franz Werfel. Gary Cooper (per Il sergente York) e Joan Fontaine (per Sospetto) si guadagnarono l'Academy Award. Joe Luis era ancora campione dei pesi massimi, ma quasi perse il titolo contro Billy Conn, riuscendo a salvare la corona con un knock-out all'ultimo round.

La morte si prese Henri Bergson, James Joyce, Sherwood Anderson, Virginia Woolf, il Kaiser Guglielmo II e Ignaz Paderewski.

Mel Brooks si chiamava ancora Melvin Kaminsky.

 

Ma nel mondo reale, fu un anno superlativo.

Nel mondo reale la Terza Convention Mondiale di Fantascienza (la Devention) si tenne a Denver, nel Colorado, continuando la sua migrazione verso ovest. La prima «Boskone» fu tenuta a Boston. Nel mondo reale apparvero su «Astounding» Methuselah Children di Robert A. Heinlein e Second Stage Lensman di «Doc» Smith.

Altre cose meravigliose e tristissime si verificarono nel mondo reale: «Stirring Science Stories» e «Cosmic Stories» iniziarono la loro ahimè troppo breve vita, ma «Comet Stories» morì. «Unknown» mutò il suo nome in «Unknown Worlds» senza danni né effetti.

Ma per compensazione, molte altre eccellenti persone fecero il loro volo inaugurale nella realtà: in gennaio... Frederic Brown con Not Yet the End; in febbraio... Cleve Cartmill con Oscar, William Morrison con Bad Medicine e Damon Knight con Resilience; in maggio... Wilson Tucker (alias Bob) con Interstellar Way-Station; e in novembre... Ray Bradbury con Pendulum, scritto in collaborazione con un altro autore.

Il primo di agosto, mentre col metrò stava andando da John Campbell, Isaac Asimov pensò per la prima volta alla caduta e alla nascita degli imperi galattici (grazie anche a un certo aiuto di Gibbons) e nella sua mente nacque nebulosamente la prima idea della Fondazione.

E ali lontane battevano l'aria mentre venivano alla luce Gregory Benford e Jane Gaskell.

Ma ora torniamo indietro nel tempo, a quel reverendo anno 1941 e godiamoci le migliori storie che il mondo reale ci ha lasciate in eredità.

 

I topi meccanici

Mechanical Mice

di Maurice A. Hugi (Eric Frank Russell)

Astounding science fiction , gennaio

 

Il defunto Eric Frank Russell è tra tutti i principali autori di fantascienza della «seconda generazione» (la sua prima storia infatti fu pubblicata nel 1937) quello che ha avuto meno considerazione. Nel 1939 il suo romanzo Sinister Barrier, pubblicato su «Unknown», gli diede per un certo tempo una buona notorietà, tanto che nel 1955 vinse il Premio Hugo per il racconto Allamagoosa ma purtroppo è sempre stato malamente ignorato dalla comunità accademica.

Questo ben congegnato racconto ha provocato anche parecchia confusione, in quanto Maurice A. Hugi era una persona veramente esistente, mentre il racconto era esclusivamente di Russell.

 

(Io non sono mai riuscito a capire il vezzo di usare degli pseudonimi. So che ci sono delle valide ragioni per impiegarli, come per esempio quando non si vuole che i vicini sappiano in quale abisso di nequizia si è precipitati facendo sfoggio della propria fantasia o quando non si vuole che il Decano della propria facoltà venga a sapere che si sta arrotondando con questo sistema lo stipendio... ma accidenti così i riconoscimenti vanno persi. A me per esempio, questo Mechanical Mice piacque immensamente quando lo lessi per la prima volta e lo considerai sempre un'ottima storia, ma solo recentemente scoprii che a scriverla era stato E.F. Russell. Terribile... ammetto che anch'io ho scritto le storie di Lucky Starr sotto lo pseudonimo di Paul French, ma avevo delle validissime ragioni per farlo e non appena mi è stato possibile le ho ripubblicate col mio vero nome. Ma si sa, io mi crogiolo nell'autoincensamento e non sarei mai disposto a rinunciare neanche a un atomo del riconoscimento che mi spetta. I.A.)

 

Chi gioca con l'ignoto si aspetti guai. Burman era di questa stoffa e ora grazie a lui parecchia gente odia in modo irrevocabile tutto ciò che clicchetta, ronza, o che assomiglia a una sveglia affaticata. Questa è la malattia chiamata meccanofobia. La causa è stato Dan Burman.

Avete mai sentito parlare della Batteria Batrace Burman? È sempre lui. Burman l'ha inventata e perfezionata poi ci ha attaccato l'etichetta dello slogan: «L'energia in tasca». Certo non è stato indifferente costruire un affarino delle dimensioni di un pacchetto di sigarette che può produrre un'energia cento volte superiore a qualsiasi altra batteria. Solo lui, Burman, sottovalutava l'importanza di ciò.

Burman mi guardò intensamente e disse: «Senti, quando quella rivista tecnica ti mandò dodici anni fa più o meno a intervistarmi, ti dimostrasti molto comprensivo. Non ostentasti sufficienza o compassione. Anzi scrivesti un articolo passabile e desti il via a tutta quella pubblicità che mi avrebbe subissato di soldi».

«Non è stato perché ti amavo particolarmente», mi sentii in dovere di precisare, «era che onestamente credevo che la tua batteria fosse ottima».

«Sarà». Burman mi guardò come chi ha sempre la mente impegnata in qualche ingegnosità e che vuol dividere questa responsabilità, pur abbastanza scettico sulla reazione di chi l'ascolta. «Beh, da allora siamo diventati amici, no?, e sei tra i pochi amici cui posso confessare qualcosa di assurdo».

Lo incoraggiai: «Avanti, sputa!» In realtà eravamo diventati amici, perché ci trovavamo simpatici e avevamo una certa affinità. Burman era sveglio e intelligente e fortunatamente privo della pedanteria dei saccenti. Aveva circa quarant'anni e un aspetto piacevole che poteva catalogarlo come un dentista d'élite.

Mi parlò molto seriamente: «Bill, non sono stato io a inventare la batteria!»

«Ma va?»

«Già! Ho preso l'idea, ma peggio ancora non sapevo cosa stavo rubando né da dove stavo rubando!»

«Beh, è chiarissimo, limpido!»

«E questo non è niente. Dopo dodici anni di lavoro ho costruito una cosa. È un aggeggio complicatissimo», si batté un pugno sul ginocchio e piagnucolò: «Adesso è finita ma non so cos'è!»

«Beh, se un inventore fa esperimenti, dovrebbe sapere cosa sta facendo, no?»

Burman rispose lugubremente: «Io no, ho inventato solo una cosa in vita mia ed è stato per caso». Con tono eccitato continuò: «Ma è stata la chiave per parecchie altre invenzioni. Mi ha dato la batteria. E per un soffio non mi ha dato altre cose più importanti. Più volte sono stato sul punto di fare scoperte di importanza inimmaginabile, al di là della portata del mio cervello limitato». Si protese in avanti e continuò: «Ora ho davanti un mistero che mi è costato quasi dodici anni di lavoro intenso e una bella somma. L'ho finito la scorsa notte... ma non so cosa è!»

«Beh, posso darci un'occhiata?»

«Vorrei proprio che lo facessi!» Burman non nascose l'entusiasmo. «È un magnifico lavoro, non voglio peccare di falsa modestia, ma sono sicuro che nemmeno tu potrai dire cos'è e che funzioni abbia».

«Se ha delle funzioni!» obiettai.

«Già, ma deve avere una funzione, qualsiasi, deve averla». Si alzò e aprì una porta: «Vieni!»

 

L'aggeggio era una scatola metallica con la superficie di rodio lucida. Sembrava vagamente una bara in piedi, e aveva la stessa aria funerea e minacciosa di una cassa da morto in attesa del proprietario.

Davanti c'erano due finestrelle da dove si vedevano rotelle in quantità indicibile, ben rifinite, come i meccanismi degli orologi. Vicino alle rotelle c'erano delle lenti minute e indifferenti. Su un lato della cassa tre sottili feritoie, sull'altro due e sul davanti una più grande. Due sbarre metalliche, simili a due gigantesche corna, spuntavano dalla cima, e finivano in una manopola conferendo alla cassa un aspetto mefistofelico e ingordo, come se aspettasse con ansia l'ora delle streghe.

Guardando l'aggeggio disgustato e indicando una feritoia suggerii: «È un impresario di pompe funebri automatico!»

«Da lì si infila il sudario e il cadavere esce dall'altra parte, pronto per la sepoltura, vestito e composto».

Burman osservò: «Beh, l'aspetto non piace nemmeno a te». Poi aprì un cassetto e ne estrasse un fascio di disegni. «Ecco lo schema dell'interno. Ci sono numerosi circuiti elettrici, transistor, bobine e condensatori e poi qualcosa che sospetto sia un piccolo forno elettrico molto funzionale. Poi ci sono dei congegni meccanici che dovrebbero essere tagliatori di ingranaggi e modellatori di pignoni. Ci sono numerose stampatrici multiple in miniatura che dovrebbero tagliare lamine metalliche. Dietro lo sportello anteriore c'è una specie di terminale di una catena di montaggio. Guarda, guarda. Vedrai che è molto complicato e dovrebbe costruire qualcosa di poco più semplice».

In effetti i disegni pur confermando quanto diceva Burman non spiegavano granché. Forse un bravo disegnatore meccanico avrebbe potuto dedurre le funzioni della macchina ma solo con a disposizione tutti i particolari, che lì mancavano ed erano parecchi. Infatti Burman si giustificò dicendo che aveva costruito alcune parti «spinto dall'estro del momento», altre invece le aveva realizzate spinto non si sa da che cosa o chi. I dati a disposizione bastavano solo a stuzzicare la curiosità legittima ma non a soddisfarla.

«Beh, mettilo in moto e vediamo che succede».

Burman replicò: «Ci ho già provato, ma non si accende. Non ci sono pulsanti di avvio né altro che possa suggerire una messa in moto. Ho tentato di tutto, ma inutilmente. Uno dei circuiti elettrici termina in quelle antenne, ho provato a immettervi della corrente ma niente!»

«Forse si aziona automaticamente», azzardai e mentre guardavo la macchina ebbi un'illuminazione: «È a orologeria».

«Cosa?»

«È regolato su un'ora precisa. Allo scoccare del tempo si mette in funzione da solo».

Burman palesemente a disagio replicò: «Non fare il tragico».

La macchina mormorò: «Bzzzzzz», così debolmente da essere quasi impercettibile.

Burman sobbalzò e indietreggiò fissando la cassa e poi me con espressione sbalordita.

«Hai sentito?»

«Sì!» Presi i disegni e mi misi a sfogliarli, alla fine potei trovare la piccola lente. C'era e aveva sul retro una cellula di selenio. «Un occhio elettronico, ti ha visto e ha reagito. Allora non è morta, anche se apparentemente sembra insignificante», spiegai applicando sulla lente un fazzoletto.

La bara con più tono ripeté: «Bzzzzzz».

Burman prese il fazzoletto e coprì le altre lenti. Niente, tutto tacque.

Confessò abbattuto: «Basta, mi arrendo».

Anch'io mi ero stancato, se quel congegno avesse funzionato avrei scritto un articolo aprendo i rubinetti di un'altra valanga finanziaria a beneficio di Burman. Ma se l'oggetto dell'attenzione ronza quando ha la luna di traverso, non si può ricavarne un articolo di effetto. A quel punto dovevo far mostra di decisione e fermezza.

«Senti, sei stato misterioso sulle circostanze che ti hanno portato a questa meravigliosa invenzione, come mai ora non ti rivolgi alla stessa fonte per saperne di più?»

«Beh, te lo spiego, anzi te lo faccio vedere».

 

Dalla cassaforte a muro Burman tirò fuori una scatola, dalla scatola estrasse un apparecchietto che era un congegno più piccolo e più semplice dell'ammasso di meccanismi a ridosso della parete. Sembrava una radio di quelle di una volta, a galena, ma il cristallo era molto grande e luminoso e inserito in una valvola sotto vuoto messa orizzontalmente. Era munito anche di selettore e di spirale metallica del rivelatore. All'apparecchio era collegata una specie di cuffia d'ascolto, costituita da un paio di emisferi di rame levigati e lucenti, perfettamente aderenti al cranio.

Burman dichiarò orgogliosamente: «Questa è la mia sola e unica invenzione».

«Che è?»

«Un congegno per i viaggi temporali».

Risi amaramente, avevo letto e scritto cose del genere, e sapevo che erano cose infondate. Non si può viaggiare nel tempo né avanti né indietro. «Allora, mostrami come svanisci nella nebbia del futuro».

Burman trovò una sicurezza che non mi confortò: «Adesso ti faccio vedere». Aveva l'aria decisa di chi sa di poter fare ciò che gli altri pensano sia impossibile. Indicò la radio: «Non l'ho trovata al primo tentativo. Ci hanno provato in parecchi, fallendo tutti. Io sono stato scelto dalla fortuna. Devo aver trovato un tipo di cristallo particolare e irriproducibile, tanto che anche in seguito non ho più potuto costruire un affare uguale, anche con un cristallo all'apparenza identico».

«E questo affare ti può far viaggiare nel tempo?»

«Solo nel futuro, non si può tornare nel passato. Però posso andare nel futuro, anche remoto. Alla vigilia della fine del mondo o anche nell'eternità».

«Beh, se non puoi viaggiare nel passato come pensi di tornare al presente una volta nel futuro?»

Burman rispose tranquillo: «Non lascio il presente, non entro nel futuro né lo influenzo, io lo osservo solamente da una posizione di sicurezza che è il presente. Tuttavia è un vero e proprio viaggio nel tempo». Poi si sedette e continuò: «Bill, tu cosa sei?»

«Io?»

«Sì, cosa sei?» e trovò la risposta da solo. «Ti chiami Bill, e sei composto da un corpo e da una mente. Chi è Bill?»

Risposi con sicurezza: «Entrambi...»

«Giusto, ma sono due parti diverse di uno stesso individuo. Non sono la stessa cosa, ma sono unite. Il tuo corpo si muove nel presente ma la tua mente può spaziare. Può pensare e allora è nel presente, può ricordare ed è nel passato, può immaginare ed è nel futuro. La tua mente in effetti può viaggiare nel tempo!»

Mi aveva fregato. Anche se avessi trovato dei punti di discussione, aveva ragione, non avevo approfondito l'argomento ma aveva ragione nell'affermare che tutti possono viaggiare nel tempo con la propria mente. Infatti io stesso potevo riandare indietro di dodici anni e lo rivedevo giovane, più pallido, e più eccitabile, meno controllato di ora. Per un istante mi fermai nel passato con la mia mente.

«Questo aggeggio si chiama psicofono, quando immagini il futuro, fai una scelta tra parecchi futuri ugualmente probabili, scegli quello che ti piace di più. Lo psicofono, non so come, ti sintonizza con la realtà futura. Ti fa realizzare mentalmente il futuro come sarà, scartando tutte le alternative che non si attueranno».

Ostentando una sicurezza che non avevo lo beffai: «Beh, una macchina dei sogni, uno stimolatore di immaginazione, come puoi sapere che il futuro sarà così come te lo mostra?»

«È coerente, ripete gli stessi fatti, ambienti e particolari troppo spesso e troppo precisamente per essere accantonato come una coincidenza. Inoltre», agitò la mano in modo persuasivo, «ho preso la batteria del futuro. E funziona no?»

A malincuore dovetti assentire. «Già, allora posso viaggiare anch'io, mi fai fare un tentativo? Forse potrò risolvere il tuo problema».

«Se ci tieni», Burman replicò con tanta prontezza da suggerire che ciò era quanto si aspettava e sistemò una sedia: «Mettiti qui e ti farò fare il viaggetto».

 

Messami la cuffia in testa e sistematimi gli auricolari alle orecchie, Burman collegò alla presa lo psicofono e lo accese o almeno sembrava da come si diede da fare con manopole e pulsanti.

«Adesso devi solo chiudere gli occhi e rilassarti. Poi lascia vagare la tua fantasia nel futuro».

Manovrò la spirale metallica ed emise due «Ah» e le mie orecchie provarono un fremito di eccitazione. Burman emise un sospiro soddisfatto e io che non resistevo ancora socchiusi gli occhi e sbirciai. Il cristallo balenava rosso come gli occhi di un ratto in una cantina buia.

Richiusi gli occhi e liberai di nuovo la mia mente. Una cosa strana, indescrivibile fluiva dagli elettrodi di rame e mi frugava nel profondo del cervello. Mi sembrava che fossero le dita di un mago del futuro che di lì a qualche istante mi avrebbe estratto l'intera massa della mia materia grigia da un cappello del futuro gridando «Ehi, presto!»... ma nel futuro gli uomini portano ancora il cappello?

Come sarebbe stata la vita nel trentesimo secolo? Involutiva? L'uomo sarebbe ridiventato uno scimmione balbettante che viveva nelle caverne? O il progresso sarebbe continuato... fino a quando gli uomini sarebbero diventati simili agli dèi?

Poi accadde! Dapprima mi foggiai con la fantasia un bruto selvaggio dall'aria feroce e poi un maciste con testone e occhi scintillanti, versione della bruttezza suprema, secondo il mio concetto personale. Nel mezzo del mio viaggio fantastico quelle dita misteriose si insinuarono nel cervello e spazzarono via i fantasmi sostituendoli con una scena che vissi come un incubo, lucidamente e impotente!

Un uomo grasso stava perorando. Apparentemente sembrava del tutto normale, tanto da assomigliare a un ragioniere dominato dalla consorte, aveva una toga romanica e al posto del serto di alloro una scatoletta nera. Anche gli astanti erano vestiti allo stesso modo con la stessa scatoletta nera in testa, come pescivendoli con le loro ceste. Il grassone declamava qualcosa senza senso, ma ne era profondamente convinto.

Sullo sfondo oltre alla folla si vedevano lunghe file curve di sedili. Doveva essere un auditorium scoperto. E sembrava di dimensioni enormi. Lontano, oltre la curva della vetta, si levava un mastodontico edificio a forma di cubo con le pareti di vetri opache e lucenti.

Il grassone accalorato tuonò: «Fwot?», «Wuk, wuk, wuk, morna noona ni! Bok ponned, ord tis, ord tat!» e puntando un indice indignato contro l'oggetto che riposava sulla sua testa: «Bo, onned, wuk, wuk, wuk. Fwot?» e abbracciò la folla con sguardo di fuoco: «Fniw!» La folla ondeggiò timidamente approvando, ma era sufficiente per il grassone. Agitò un pugno e gridò: «Va a ferno!» e si strappò la scatoletta dal cranio.

Non ci furono movimenti, la folla impietrita con gli occhi sbarrati lo fissò, paralizzata dalla prospettiva di un essere senza scatoletta. Un oggetto allungato e sottile di forma aerodinamica con ampie ali, arrivò da lontano, si elevò dolcemente in cielo e scese in picchiata sull'auditorium. La folla era muta e immobile.

Il grassone sorridendo trionfante latrò: «Amo ere osa ede esso! Amo ere esso!»

E si fermò. Con un getto di fumo dalla coda, ma in silenzio perfetto, l'oggetto si librò al di sopra del grassone e gli sparò addosso un raggio argenteo. Il raggio sfiorò il grassone che cominciò un processo immediato di decomposizione, come vittima di lebbra galoppante. Poi crollò al suolo e si sbriciolò nei vestiti afflosciati e ridiventò polvere com'era stato un tempo. Una visione orribile!

Il pubblico non scappò in preda al panico, nessuno aprì le labbra incollate in espressioni di paura o ribrezzo. L'oggetto celeste girò in tondo per controllare il suo operato, e ridiscese in picchiata con l'antenna che sprizzava scintille furiose. La folla all'unisono si voltò verso sinistra con movimenti quasi militari e iniziò la marcia, sinist, dest, sinist, dest.

Quando mi fui strappata via la cuffia, narrai a Burman ciò che avevo visto o che il suo aggeggio mi aveva fatto immaginare. «Che diavolo significa?»

Lui mormorò: «Automi, grattacieli di grassite e aerei a reazione». Sfogliò un diario che strabordava di annotazioni manoscritte. «Ah, ecco, devi essere capitato all'inizio del trentesimo secolo. Ci fu un periodo di agitazioni che durò venti anni prima della Rivolta Antiscatole».

«Rivolta cosa...?»

«Antiscatole, la rivolta degli automi contro i tecnocrati del trentunesimo secolo. Jackson DKJ-99717, furbo e fortunato, aveva la scatola difettosa e riuscì a guastarne un altro centinaio e poi condusse i ribelli alla vittoria nel 3047. Il suo pronipote, avido e poco intelligente, provocò la ribellione dei Liberi Senza Scatola contro la propria setta dei Jacksocrati».

Ero rimasto a bocca aperta a questa cronaca. «Beh, a sentire te sembrerebbero fatti storici».

«Certo, è la storia futura!» Meditò un po'. «Ti sembrerà strano studiare il futuro ma invece è una procedura normalissima. Solo che la selettività è limitata e imprecisa. Se riesci a pescare venti volte di seguito lo stesso periodo non ti troverai mai nello stesso mese o nello stesso anno. Anzi è rarissimo capitare due volte nello stesso decennio. Ecco perché i miei dati sono incompleti».

«Ah, immagino, un uomo molto intuitivo può indovinare il tempo esatto con l'approssimazione di un minuto o due, ma non di pochi secondi».

Burman esclamò: «Giusto! Vedi io ho potuto osservare il futuro, ma è stato così schematico che non ho potuto afferrare i suoi preziosi segreti. Una volta ho assistito nel venticinquesimo secolo alla costruzione e al montaggio completi di una batteria. Ho potuto trascrivere tutti i dettagli, ma non ho più ritrovato quella scena. Tuttavia sono riuscito a costruire la batteria e tu l'hai vista».

«Ah, così hai inventato la tua batteria?»

«Già, ma per quanto sia funzionale non è all'altezza di quella che ho visto nel futuro. Mi sono sfuggiti dei particolari secondari». Poi la sua voce divenne seria e aggiunse: «Mi sono sfuggiti perché così doveva essere».

Confuso, azzardai: «Cosa significa?»

«La storia, sia essa passato o futuro, non permette paradossi abnormi. Avendo derivato la batteria dal venticinquesimo secolo in quell'epoca sono ricordato come l'inventore del ventesimo secolo. Nei cinque secoli successivi sono stati apportati dei miglioramenti alla batteria togliendomi automaticamente la possibilità di esserne edotto. Il futuro è inalterabile e fermo per chi vive nel presente, come del resto è il passato».

«Beh, spiegami quell'aggeggio che sa solo ronzare e basta».

Burman non celò l'irritazione: «Accidenti, mi sta facendo impazzire! Non può essere un paradosso, no, non può!» E con cautela aggiunse: «Perciò dev'essere un paradosso solo apparente!»

«Va bene, dimmi come si fa a vedere un paradosso apparente e l'uso commerciale di esso e ci scriverò un articolo bellissimo».

Burman ignorò la mia ironia: «Ho cercato di spingermi nel futuro quanto può una mente umana e ho visto solo un'enorme distesa di terra sterile e arida su cui poggiava una grossa macchina strana e scintillante, maestosamente silenziosa e solitaria. Sembrava sentire il mio esame attraverso i secoli e attirava con una specie di potere ipnotico la mia attenzione. Ho fissato quella visione senza distogliermi per più di un giorno. Incantato. Non ho mai avuto una visione futuristica altrettanto lunga».

«Poi?»

«Ho disegnato il progetto, disegni molto esaurienti, da bravo disegnatore, con sicurezza. Non potevo vedere dentro la macchina, ma inspiegabilmente i suoi schemi pervennero alla mia mente. Sapevo come era dentro. Alle quattro del mattino mi ritrovai con una quantità di disegni molto complicati, con la testa in fiamme e quasi vinto dal sonno, con un misterioso senso di paura». Per un attimo tacque. «Un anno dopo con molto coraggio iniziai a costruire l'oggetto dei disegni. Ci è voluto parecchio tempo e denaro, ma ci sono riuscito».

Con simpatia sottolineai: «Ma sa fare solo "bzzzzzz"!»

Burman, incerto, sospirò: «Già!»

Burman guardava il muro tristemente con la mente molto lontana da lì, mentre io mi trastullavo con gli auricolari di rame. So di possedere una immaginazione superiore alla media, ma non riuscivo a immaginarmi una soluzione pratica di quella bara piena di congegni a orologeria. Nemmeno col suo «bzzzzzz».

Fu allora che dalla bara uscì un sommesso «vrrrrr». Sobbalzammo e ci voltammo a quel rumore nuovo guardandola a occhi sbarrati. La macchina ripeté «vrrr». Dalla finestrella anteriore si vedevano le rotelle che iniziavano a girare.

Burman esclamò: «Cielo!»

La grossa cassa slittò improvvisamente di lato sui suoi sostegni emettendo «bzzzz! vrrrr! clicccc!»

L'ignoto fa sempre più paura di quanto si conosce pur brutto che sia e anche se dire che quella improvvisa vita della macchina ci spaventò è eccessivo, certo ci mettemmo in guardia e cominciammo a sentirci agitati. Quella bara era l'ignoto e rimanemmo vicini a fissarla affascinati e spaventati.

L'oggetto scivolò per poco più di mezzo metro e si fermò. Rimase fermo e silenzioso con le lenti inespressive. Poi scivolò di un altro mezzo metro, poi pausa. Altra inespressiva contemplazione. Altro movimento più rapido e lungo e la macchina finì contro il tavolo. Poi si fermò definitivamente ed emise una serie variamente modulata di «clic», sincronizzati come un paio di vecchie pendole regolate insieme.

Burman sentenziò con calma: «Beh, credo che succederà qualcosa».

Se la macchina avesse potuto parlare lo avrebbe battuto sul tempo. La profezia di Burman era appena stata emessa che una delle feritoie laterali della bara si aprì e ne uscì un braccio metallico che circospetto come un serpente, si avvicinò a un cronometro navale sul tavolo.

Burman sorpreso si tuffò per salvare il cronometro ma arrivò troppo tardi, il braccio metallico afferrò l'oggetto e rientrò velocissimo nella feritoia che si chiuse seccamente, sinistramente affine a una trappola per orsi. Nello stesso istante sul davanti si aprì un'altra feritoia da cui uscì un altro braccio snodabile e così veloce che non si poteva assolutamente seguire. Poi la feritoia si richiuse dietro un Burman quasi scioccato che si guardava il gilè strappato privato di un orologio d'oro con relativa catenella.

«Oddio», esclamò arretrando a distanza di sicurezza dalla macchina.

Per un po' la guardammo prudentemente, ma l'aggeggio restò immobile, sempre ticchettando come in fase di masticazione. Le lenti avevano la stessa espressione di una mucca pasciuta tanto che pensai che si stesse digerendo un appetitoso pasticcio di ingranaggi, pignoni e rotelle dentate.

Sembrava aver perduto quell'aria minacciosa di prima o forse era troppo impegnata nel suo laborioso chilo, per cui cercammo un recupero in extremis dell'orologio di Burman. Burman cominciò a tirare il coperchio della feritoia dove si era involato il braccio ladro, ma non si smosse. Provammo in due, sempre inutilmente. Lo sportellino sembrava addirittura saldato. Nemmeno un cacciavite riuscì nel compito. Certo con una sbarra metallica o un piede di porco avremmo potuto fare qualcosa, ma Burman non volle danneggiare ulteriormente la macchina che doveva essergli costata più del suo prezioso orologio.

La bara continuava il suo monotono «tic tic tic!» e noi eravamo daccapo senza aver scoperto nulla di nuovo. Non ci restava che girarci i pollici. Eravamo a uno stallo, a meno di spaccare la macchina, ma sembrava che lo sentisse mentre ci fissava con le sue lenti e irridendoci col suo incessante «tic tic tic». Da quello che doveva essere il ventre, ammesso che l'avesse, emanava un leggero calore; stando ai disegni, lì doveva esserci il fornellino elettrico.

Era stabilito per certo che la macchina si fosse messa in funzione. Io mi sentivo poco bene e al limite della follia e pensavo che anche Burman fosse nelle stesse condizioni. Come due imbecilli stavamo lì a guardare come a una fiera di paese, ignorando lo scopo e le possibilità della macchina, mentre l'aggeggio davanti a noi si dava da fare per assolvere i compiti per cui era stata costruita.

Da dove ricavava l'energia necessaria? Forse le antenne sulla testa assorbivano la corrente dall'atmosfera? O si nutriva di onde radio? O aveva un generatore interno? Stava per generare qualcosa, era evidente, ma cosa?

La macchina rispondeva col suo continuo «tic tic tic».

Mentre la macchina continuava indaffarata a ticchettare con grosso impegno, la nostra curiosità restava insoddisfatta come le nostre domande. A mezzanotte ticchettava ancora. Optammo per la resa temporanea, rimandando il problema al giorno dopo. Burman chiuse la porta del laboratorio e ce ne andammo.

 

La guardia notturna Burke aveva un compito molto semplice, doveva infatti girare attorno all'isolato tenendo d'occhio i negozi soprattutto quelli di gioielli e ogni ora doveva telefonare in centrale dall'apparecchio all'angolo della strada.

Il lavoro notturno ben si adattava al suo carattere introverso. Poteva passeggiare per ore, parlando tra sé senza alcuna distrazione esterna né alcun disturbo. Nella sua zona di notte non era mai successo nulla.

Davanti alla vetrina del gioielliere, Burke si fermò guardando dentro attraverso il cristallo spesso e la rete metallica, verso la cassaforte illuminata da una luce fioca. Nella cassaforte c'era un tesoro inestimabile. Qualsiasi tentazione avventurosa era scoraggiata dalla guardia, dalla griglia, dai sistemi d'allarme automatici e altre ingegnose trappole. In vent'anni non si era mai verificato alcun tentativo di furto. Anzi, mai nessuno aveva tentato di razziare il contenuto della vetrina protetta dalla griglia.

In cielo la luna illuminava un sottile strato di nuvole. Si voltò e riprese la passeggiata. Un gatto randagio sgusciando alle sue spalle, avanzò silenzioso bordeggiando l'edificio. Burke distinse la sagoma del felino che fuggiva furtivo nel buio ma prosegui voltando l'angolo.

Il gatto si fermò sotto la vetrina del gioielliere con una zampetta sollevata e le orecchie puntate. Poi si appiattì, ventre a terra, con gli occhi scintillanti, all'erta, con la coda che ondeggiava lentamente.

Un oggetto piccolo e lucido sfrecciò verso il gatto con l'agilità e la velocità di un topolino. Il gatto si irrigidì e quando l'oggetto fu alla sua altezza balzò in avanti avidamente. Con gli artigli afferrò l'oggetto, ma questo era duro e scivoloso, nient'affatto morbido e peloso. L'oggetto sfrecciò via come un giocattolo a molla eludendo i tentativi di bloccarlo del gatto. Poi soffiando infuriato, il felino lo colpì a tradimento gettandolo un paio di metri più in là. L'oggetto restò rovesciato sul dorso emettendo ticchettii di protesta e lievi impulsi impercettibili al gatto.

Il felino guadagnò il canale di scolo e si appiattì di nuovo. Stava arrivando un altro oggetto. Il gatto tese i muscoli con gli occhi rilucenti nella notte. Un altro oggetto simile a quello che aveva catturato poco prima, ma più grande e rumoroso e a forma di cilindro placcato d'oro stava arrivando. Aveva la parte anteriore a cono guarnita di una lama sottile e appuntita e rotolava rapidamente su rotelline invisibili.

Il gatto balzò. Oltre l'angolo Burke sentì il miagolio acuto e un gorgoglio, ma non si allarmò. Aveva già sentito altre volte gatti e topi fare strani rumori di notte. E continuò flemmatico la ronda.

Tre quarti d'ora dopo Burke aveva completato il giro del caseggiato e si trovò al punto fatale. Puntando la torcia a terra fece rotolare via col piede la carcassa del gatto che aveva la gola squarciata di netto, tanto violentemente da essere quasi recisa dal corpo. Rimase a fissare perplesso la bestia senza riuscire a figurarsi persone che odiassero tanto i gatti!

«Qualcuno avrebbe bisogno di una bella dose di botte!» sbottò.

Spinse col piede il cadavere nel canale di scolo a disposizione degli spazzini al mattino dopo. Poi guardò la vetrina del gioielliere dove la cassaforte era sempre illuminata dalla luce. Ma pensava al gatto e sentiva che qualcosa non tornava. Con uno sforzo si concentrò sul suo lavoro e fece un attento esame. C'era qualcosa che non andava, ma non era la cassaforte, bensì la vetrina. E cominciò a sudare freddo.

Al centro della vetrina i vassoi di anelli scintillavano freddamente. Sulla destra, l'argenteria brillava intatta. Sulla sinistra, dove c'erano stati degli orologi delicati e molto costosi, c'era il vuoto. Non ne era rimasto uno. Burke ricordava che in prima fila faceva sfoggio un magnifico cronometro col calendario e rifinito meravigliosamente, del valore di un anno del suo stipendio. Sparito anche quello.

Scosse la griglia per saggiarne la resistenza, mentre il raggio della torcia tremolava. Intatta. Anche la porta e la finestrella di ventilazione dietro la griglia erano chiuse. Quando tornò a esaminare la vetrina vi scoprì un forellino molto netto di cinque o sei centimetri di diametro, in basso dalla parte dell'esposizione degli orologi.

Bestemmiando, Burke si precipitò al telefono d'angolo. La mano gli tremava indignata nel prendere il ricevitore. E quando ebbe la comunicazione con la centrale raccontò tutto, convinto di saperne qualcosa anche se vagamente poiché aveva letto una volta di un furto con una tecnica similare.

«Direi che hanno tagliato un disco con una punta rotante di diamante per poi toglierlo, con una ventosa, e pescare nella vetrina con una bacchetta telescopica». Tacque un attimo e riprese: «Sì, l'ho visto subito, gli anelli valgono dieci volte tanto».

Ascoltando quanto gli veniva detto nel ricevitore, con gli occhi vagava lungo la strada e al livello del marciapiede guardò nel canale di scolo. Un altro gatto morto! Restando attaccato alla cornetta si spostò per tutta la lunghezza del filo e col piede fece rotolare via il gatto dal marciapiede. Poi gli puntò addosso la torcia. Anche questo sgozzato... con un taglio da un orecchio all'altro!

«E poi c'è un folle che va in giro ad ammazzare gatti!» urlò esasperato nel microfono.

Riappese e tornò alla vetrina, dove rimase di guardia fino all'arrivo della macchina della polizia. Scesero quattro agenti.

«Gatti!», esclamò il primo. «Beh, qualcuno ce l'ha a morte con i gatti. Un paio di edifici fa ne abbiamo trovati due, stesi in mezzo alla strada. Quasi ghigliottinati, erano ancora caldi».

Il secondo brontolò avvicinandosi alla vetrina ed esaminò il forellino: «La banda è troppo furba per aver lasciato impronte».

Burke rispose borbottando: «Beh, non sono molto furbi, visto che non hanno toccato gli anelli».

«Già, vero, se hanno lasciato gli anelli, devono aver lasciato le impronte. Comunque faremo le analisi», ammise l'altro.

Dall'angolo sbucò un tassì che si fermò dietro la macchina della polizia; ne scese un tale elegante, carico di fronzoli di valore, piuttosto agitato che corse verso il gruppo di poliziotti. La mano era ben curata, ma umidiccia e stringeva un mazzo di chiavi.

«Sono Maley, il direttore! Mi avete chiamato!» spiegò affannosamente. «È terribile, terribile, la mostra in vetrina vale migliaia di dollari. Un disastro!»

Uno dei poliziotti chiese con calma: «Beh, si può entrare?»

«Certo! Certo!»

Con mani tremule aprì la griglia e fece scattare la serratura, con l'ausilio di sei chiavi. Entrarono. Maley accese le luci e infilò la testa tra le mensole di vetro per controllare la vetrina.

«I miei orologi, i miei orologi», piagnucolò.

Uno dei poliziotti falsamente solenne e facendo l'occhiolino ai compagni disse: «Terribile, terribile!»

Maley si chinò di più per controllare un angolo vuoto. «Spariti tutti! Tutta la mia esposizione degli orologi migliori... Ehi!» L'urlo fece sobbalzare tutti, Maley si agitava insinuandosi tra le mensole verso la griglia e la vetrina: «Il mio orologio! Anche il mio orologio hanno preso!»

I poliziotti che si avvicinarono silenziosamente e sbirciando oltre le sue spalle, videro il moschettone d'oro di un nastro di velluto passare attraverso il foro della vetrina. Burke corse fuori per primo con la luce elettrica che scandagliava il marciapiede. E trovò l'orologio. Si muoveva rapidamente rasente il muro e si bloccò quando fu investito dal raggio della torcia. Burke scorse per un istante qualcosa di lucente allontanarsi nelle tenebre, sfuggendo al cerchio di luce.

Burke raccolse l'orologio e ascoltò. Gli altri accorsero impedendogli di sentire bene, ma riuscì a captare un lieve ronzio e un ticchettio vivace non appartenente all'orologio che aveva in mano. Ma forse se lo era immaginato! Perplesso si voltò verso i compagni.

«Ma, non c'era nessuno qui, deve esserle caduto di tasca e rotolato via!»

Ma come faceva un orologio a rotolare così lontano? Che succedeva quella notte? Burke sentì in lontananza un urlo seguito dal gorgoglio che ormai conosceva bene. Rabbrividì. Non era certo difficile indovinare cos'era successo. Gli altri non si erano accorti di nulla.

 

Sui giornali del mattino fu dedicato molto spazio alla vicenda. Gli orologi rubati erano sessanta e i gatti sgozzati otto e mancavano degli strumenti dal magazzino di un fabbricante di apparecchiature scientifiche. Lessi l'articolo mentre andavo al laboratorio di Burman. C'erano parecchi particolari ma tutti lacunosi e potei ricostruire l'intera vicenda in seguito, quando scoprimmo il vero significato della cosa.

Burman era già in attesa. Era preoccupato e di cattivo umore. La bara continuava a ticchettare, ma con un rumore molto più forte del giorno prima. Sembrava un alveare in funzione.

«Allora?» gli chiesi.

«Beh, si è spostata di parecchio stanotte, ha distrutto un paio di termometri prendendo il mercurio che contenevano. Ho trovato dei cassetti aperti e altri chiusi, ma devono essere stati frugati alla perfezione. Sono spariti un pacco di fogli di nichel e una bobina di filo di rame». Indicò rabbioso la porta e continuò: «E certo è stato questo aggeggio a fare quei fori! Ieri non c'erano».

Sul battente c'erano due grossi buchi. Non potevano essere stati i topi, perché erano troppo perfetti e ben levigati, come intagliati a mano.

«Ma perché li ha fatti?» domandai. «Non può passarci attraverso!»

Burman, fissando la macchina indaffarata nel suo compito, ribatté: «Beh, vedi qualcosa che abbia senso in tutto questo?» La macchina gli rilanciò uno sguardo inespressivo dalle lenti e continuò le sue variazioni e i suoi ticchettii: «Tic tic tic». Poi all'improvviso fece: «Vrr, tump, cric!»

Burman stava per emettere un colorito commento sulla sua creazione quando questa lo precedette con un sibilo acutissimo, anche se a malapena percettibile. Un oggetto scintillante attraversò velocissimo uno dei buchi e sfrecciò sul pavimento verso la macchina. Una delle feritoie si aprì e inghiottì subito l'oggetto, tanto che non potei afferrare l'accaduto. L'oggetto che ci era sfrecciato sotto il naso era un cilindretto di metallo levigato simile a una spola da macchina da cucire, ma più grossa di almeno quattro volte. E dietro si portava un altro oggetto di metallo un po' più piccolo.

Ricambiai di cuore lo sguardo perplesso lanciatomi da Burman. Si mise a frugare frenetico nel laboratorio finché trovò una sbarra di acciaio di circa un metro per un centimetro di diametro. Trascinata una sedia sulla porta si sedette e con la sbarra a mo' di randello fece la guardia ai buchi. La macchina continuava a osservarlo e a ticchettare imperturbabile.

Dopo dieci minuti ci fu un «clic» improvviso seguito da un altro sibilo. Nulla entrò dai buchi ma il cilindretto di prima uscì dalla feritoia e partì a razzo verso la porta vicino a dove eravamo in attesa. Burman fu colto di sorpresa e abbassò violentemente la sbarra ma l'oggetto schizzò oltre i suoi piedi e si infilò in uno dei buchi. Prima che la sbarra toccasse il pavimento era già sparito dall'altra parte.

Burman era avvilito e imprecò: «Accidenti!» e con la sbarra impugnata debolmente guardava la bara in piena attività: «La spaccherei, se non morissi dalla voglia di catturare uno di quei cilindri!»

«Attenzione!» lo avvertii.

Ma Burman non fu così svelto e voltandosi verso i fori sollevò la sbarra con espressione sorpresa. La sua reazione fu troppo lenta. Tre cilindretti si erano intrufolati attraverso i buchi e avevano già percorso metà laboratorio prima che fosse in posizione di tiro. Le feritoie della bara si chiusero su di essi con uno schiocco.

I tre cilindretti erano entrati in fila indiana e avevo potuto vederli meglio. I primi due erano spolette dorate simili a quella che avevamo visto prima, ma il terzo era più grosso e veloce e sembrava più agile, sul davanti aveva una lama lucida e appuntita, simile a un bisturi. Non avevo potuto esaminarlo bene per la velocità con cui era sfrecciato, ma mi era sembrato che la lama fosse macchiata di sangue. Sentii un brivido nella schiena.

 

Poco dopo alla porta si sentì un grattare e da uno dei fori si introdusse una zampetta bianca che si mise a tastare attorno. Come Burman aprì la porta, il gatto restò a distanza, ma guardando famelico verso il laboratorio. Certamente l'animale aveva visto uno di quei misteriosi oggetti ronzanti e sia io che Burman pensammo contemporaneamente a come i gatti sono veloci a balzare sulla preda. Forse, se avesse potuto, il gatto ci avrebbe aiutato catturando per noi i cilindri.

Usando paroline dolci e rumori invitanti attirammo il gatto che fu vinto dalla sua bramosia a entrare, vincendo la diffidenza istintiva verso gli estranei. Poi chiudemmo la porta e Burman tornò a sedersi accanto alla porta con la sua sbarra tenendo d'occhio sia i buchi che il gatto. Non era possibile ma lui ci provava, mentre il gatto gironzolava in cerca di preda e miagolava deluso. Sembrava che stesse investigando usando più la vista che l'olfatto, visto che non c'erano odori particolari.

Con caparbietà felina il gatto passò e ripassò tutto il laboratorio, senza degnare assolutamente di attenzione la bara. Poi si arrese e si sedette in un angolo del tavolo intento a lavarsi il muso.

La bara continuava il suo «tic tic tic», poi «vrr tump!» Una feritoia si aprì di scatto e ne saettò fuori la spoletta. Subito dietro un'altra uguale. La prima prese di sorpresa anche il gatto, oltre che Burman. La sbarra colpì il pavimento con un botto mentre la prima spoletta aveva attraversato trionfante un foro.

Il gatto riuscì a intercettare la seconda spoletta e con un balzo potente e gli artigli protesi l'afferrò a meno di mezzo metro dalla porta. Prima tentò di immobilizzarla con gli artigli, ma era troppo levigata e non ci riuscì. Per un istante la spoletta si liberò e schizzò via per un mezzo giro. Il gatto le balzò di nuovo addosso, mancò il bersaglio e soffiando rabbioso la colpì mandandola a sbattere contro il battiscopa. La spoletta restò rovesciata sul dorso con quattro rotelline che giravano a vuoto emettendo un sibilo quasi ultrasonico.

Burman visibilmente eccitato depose la sua clava e andò a prendere la spoletta. E il gatto si avvicinò per giocarci ancora. La spoletta era impotente, sul dorso, ma prima che Burman e il gatto la raggiungessero, la bara con un «clunk» aprì una feritoia e sputò fuori un altro congegno.

Il gatto rapidamente si avventò sulla nuova preda. E fu il caos. La preda scartò di lato con barbagli dorati e il gatto la inseguì soffiando. Il suo pelo bianco e nero si trasformò in una palla indistinta in simbiosi con la spoletta, che a tratti emetteva un luccicante bagliore dorato. I soffi del gatto coprivano il sibilo continuo che saliva e scendeva di giri come un motore che acceleri o rallenti.

A un tratto il gatto emise un miagolio strozzato e il suo sangue sprizzò sul pavimento. L'animale annaspò con le zampe ed emise un altro grido seguito da un gorgoglio, infine si afflosciò con un brivido. Dalla gola squarciata gli uscì un fiotto rosso cupo.

Stavamo considerando velocemente le sinistre implicazioni della scena quando la spoletta vincitrice si avventò contro Burman, che era vicino al battiscopa con la spoletta avariata in mano. Burman nonostante la paura fu abbastanza svelto da scartare di lato un secondo prima che l'oggetto gli sfrecciasse ai piedi.

Si ritrovò così a essere dietro all'affanno che si voltò rapidamente e ripartì all'attacco. Potei vedere benissimo la lama splendente come uno specchio mentre partiva in quarta a velocità incredibile. La punta della lama era sporca di sangue per circa cinque centimetri. Burman la evitò con un altro salto e, raggiunto il tavolo, vi balzò sopra.

«Mio Dio!» esclamò, esausto.

Intanto mi ero impadronito della sbarra che aveva abbandonato e soppesandola mi sentivo maggiormente sicuro. Poi mirai la mostruosità ronzante per farla volare fuori dalla finestra sui tetti adiacenti. Ma era troppo agile e la mancai. L'oggetto si voltava, girava, accelerava, evitava di poco la sbarra e continuava a ruotare attorno al tavolo su cui si era arroccato Burman. E mi ignorava del tutto; il suo unico interesse doveva rispondere a qualche misterioso richiamo di aiuto da parte della spoletta catturata da Burman.

Vibrai di nuovo con disperata frenesia un altro colpo ma lo mancai ancora, anche se solo di un millimetro, giurerei. Qualcosa saettò attraverso i fori della porta e oltrepassandomi si infilò nella bara. Ruotai la sbarra furioso, ma riuscii solo ad ammaccare il pavimento e a slogarmi una spalla.

Poi, senza motivo, l'oggetto dorato smise di girare attorno al tavolo, con uno scatto secco e un ronzio molto più accentuato si arrampicò su una gamba del tavolo con l'agilità di un ragno e arrivò in cima.

Burman saltò giù dal tavolo pallidissimo, ma sempre tenendo stretta in mano la spoletta.

Con voce strozzata gridò: «La bara!! Distruggila!!»

La bara fece «tunc» e da una feritoia sputò un altro dei killer armati di bisturi. «Tzzz!» un terzo saettò nel laboratorio da un buco della porta. Quattro spolette lo seguirono dentro e raggiunsero incolumi la bara. Poi arrivò un altro oggetto che si portava dietro una molla di una valvola di automobile, con un calcio lo sbattei contro il muro mentre cercavo di colpire uno col bisturi.

Burman riuscì a eludere uno degli assalitori mentre un altro gli ghigliottinò la punta della scarpa destra. Burman si rifugiò sul tavolo nuovamente mentre il primo degli intrusi ne era sceso. Subito i tre killer luccicanti si avventarono contro il tavolo a velocità paurosa.

«Butta via quella spoletta!» gli urlai.

Ma Burman non mi ascoltò, col terzetto che si arrampicava ronzando sulle gambe del tavolo, buttò la spoletta con tutta la sua forza contro la bara. L'oggetto colpì la sua madre meccanica, l'ammaccò e ricadde a terra. Burman volò giù dal tavolo. La spoletta scagliata contro la bara giaceva a terra fracassata e silenziosa, le rotelline finalmente immobili.

I tre aggeggi armati che giravano attorno al tavolo cambiarono repentinamente direzione, come in conseguenza della distruzione della spoletta. Si allontanarono dal tavolo e guizzarono dai buchi della porta. Un quarto aggeggio uscì dalla bara come scorta a due spolette e sparirono oltre la porta. Pochi secondi dopo un oggetto nuovo assolutamente diverso dagli altri entrò da uno dei fori. Era lungo e rotondeggiante, dal muso piatto, simile a un piccolo sfollagente, con sei rotelline di sotto e minuscole dentellature davanti. Lo guardammo affascinati attraversare il pavimento. Le dentellature si muovevano rapide e a scatti mentre si arrampicava sul fianco della bara diretto alla feritoia più in basso. Erano dei cingoli, simili a quelli di una ruspa o un carro armato.

Burman ormai aveva deciso di farla finita, prese la sbarra e si avvicinò con decisione alla bara. Quando le fu davanti le lenti della macchina lo fissarono schernendolo. Con un colpo solo stava per distruggere dodici faticosi anni di lavoro, una sequela infinita di giorni e notti di sforzi. Ma non gli importava più. Con una mazzata feroce demolì una finestrella e poi selvaggiamente infierì sulla catena di ingranaggi e meccanismi interni.

La bara sussultò e cadde sotto i colpi sempre più feroci. Le feritoie si aprirono, sputando esemplari defunti della sua progenie metallica, dall'interno uscivano stridii e cigolii, mentre la macchina veniva distrutta. Poi giacque immobile e silenziosa, ormai inutile e informe cumulo di meccanismi fracassati.

Raccolsi da terra l'oggetto con le dentellature; era molto pesante e anche se parzialmente distrutto, si dimostrava una meravigliosa opera di lavorazione meccanica. Sulla fronte aveva una cellula fotoelettrica quasi invisibile, la lente in miniatura era rotta. Forse era tornato a farsi riparare?

Burman ansimò vistosamente e disse: «Fatto!»

Temendo che tutto quel baccano avesse richiamato qualcuno aprii la porta, ma fuori non c'era nessuno, sulla porta c'era solo una spoletta immobile e più in là un'altra. La prima aveva una catenella d'ottone e un gancetto che fuoriusciva dalla parte posteriore. La seconda aveva il muso aperto come un diaframma dell'iride e dentro erano visibili due piccoli bracci snodabili in metallo che stringevano un diamante abbastanza grosso. Evidentemente stavano per entrare col bottino quando Burman, distruggendo la macchina, le aveva bloccate.

Le presi e le portai dentro. Erano assolutamente immobili e anche se erano intatte era abbastanza evidente che erano controllate dalla bara e che venivano da essa rifornite d'energia. In tal caso, avevamo risolto il problema semplicemente e inequivocabilmente. Distruggendo la macchina, infatti, gli altri marchingegni non funzionavano più.

Burman, ripreso fiato, aveva cominciato a spiegare.

 

«Era la Madre Robot... ecco cosa avevo costruito! Un duplicato miniaturizzato della Madre Robot! Non lo sapevo e stavo costruendo la cosa più pericolosa di tutto l'universo! Una terribile minaccia perché come l'umanità, essa ha la possibilità di riprodursi. Per fortuna l'abbiamo fermata in tempo!»

Ricordavo che aveva detto di averla copiata dal futuro remoto e azzardai: «Beh, sarà il padrone o la padrona ultima della Terra. Che prospettiva avvilente per l'umanità, vero?»

«Non necessariamente. Chissà quanto lontano mi sono spinto nel futuro ma credo che si trattasse di un'epoca tanto lontana che ormai il pianeta fosse totalmente arido dal punto di vista degli esseri umani. Forse gli uomini erano emigrati in un'altra parte dell'universo lasciando le macchine, cioè gli schiavi meccanici, a combattere da sole per l'esistenza o a soccombere».

«Ed anche a darsi da fare per mutare il passato in senso a loro favorevole», suggerii.

Burman ormai calmo disse: «No, non credo. Mi sembra che non si sia trattato di un tentativo malvagio, ma di un esperimento interessante. La faccenda era destinata a fallire dall'inizio, poiché in caso di riuscita si sarebbe prodotto un paradosso impossibile. Nel secolo prossimo non ci saranno robot né ci sarà la consapevolezza della loro esistenza. Qualsiasi intruso della nostra epoca doveva per forza essere distrutto e dimenticato del tutto».

«Vuol dire che non devi solo distruggere la macchina», gli sottolineai, «ma anche i tuoi disegni, le tue note e lo psicofono e lasciando solo una vaga menzione di fatti anomali e a me una storia da dire».

«Certo. Distruggerò tutto. Ci ho pensato e solo ora ho capito che in effetti lo psicofono non mi servirà mai davvero. Posso scoprire o inventare solo le cose che la storia ha deciso di lasciarmi inventare e posso farlo con o senza lo psicofono. Non si può barare con la storia, che sia passata o futura!»

«Umph!» In effetti il ragionamento filava e mi limitai a osservare: «Hai notato la psicologia delle api nel nostro nemico? Tu hai costruito l'alveare e da lì sono nati operai, guerrieri e...» indicando l'oggetto entrato per ultimo «...un fuco!»

Burman lugubremente assentì. «Già, e penso al... miele. Ottanta orologi, per non parlare degli altri preziosi e oggetti metallici che forse gli ultimi giornali riporteranno come scomparsi. E i gatti sgozzati. Meno male che sono ancora abbastanza ricco!»

«Beh, nessuno può collegarti a quegli incidenti. Puoi anche rifondere i danni alle persone danneggiate se vuoi».

«Lo farò», dichiarò Burman.

«Beh», continuai più allegramente, «tutto è bene ciò che finisce bene. Fortunatamente ci siamo sbarazzati di una maledizione che ci siamo creati da soli».

Con un sospiro di sollievo mi diressi alla porta, all'improvviso la mia attenzione fu attirata in basso da un ronzio di un motorino. Burman ed io guardammo la spoletta dorata che si infilò nel laboratorio da uno dei buchi e, constatata la morte della Madre Robot, si rigirò e saettò fuori da un altro foro prima che potessi fermarla. Eravamo inorriditi.

Burman che prima era già scosso, ora lo era di più. Si avvicinò alla porta e guardò incredulo il foro usato dalla spoletta e guardò le altre due spolette a terra immobili anche se intatte.

«Bill, l'analogia con le api era perfetta. Hai capito? Si formerà un altro sciame! Una regina è fuggita!»

 

Infatti il nuovo sciame nelle quarantotto ore successive ne combinò di tutti i colori. Burman passò quel tempo alla centrale di polizia per convincere i funzionari della veridicità della sua storia. Fortunatamente la polizia si fece convincere anche grazie ai rapporti altrettanto fantasiosi che arrivavano in continuazione.

Prima il vecchio Gildersome aveva sentito a mezzanotte uno schianto in negozio e, pensando alla varietà di costose macchine fotografiche e cineprese e proiettori e microcamere, si era infilato i pantaloni e si era precipitato dalle scale. Uno strumento affilato come un rasoio l'aveva ferito al collo del piede destro a metà rampa. Il resto delle scale lo aveva fatto ruzzolando. Sanguinando, ammaccato e un po' intontito, era rimasto ai piedi dei gradini mentre numerosi oggetti misteriosi che emettevano ronzii, ticchettii e cigolii sciamavano nel buio del negozio. Pezzo per pezzo tutto il contenuto della scatola di costose lenti telescopiche sparì da un foro sulla porta, in basso. E così scomparvero pure parti di proiettori e parecchi ingranaggi e rotelline.

La stessa notte dieci persone denunciarono furti di orologi e sveglie. Due dei derubati erano in piena crisi isterica. Uno giurò che il ladro era «uno scarafaggio di quindici centimetri» che ronzava come la dinamo di un giocattolo. Lui era saltato dal letto e ci aveva messo sopra il piede sentendo la superficie liscia e dura che gli scivolava di sotto. Disgustato aveva rimesso a letto il piede mentre un «altro scarafaggio correva verso di lui». Burman non osò dire al querelante che aveva rischiato di rimetterci il piede.

Il giorno dopo arrivarono trenta denunce. Dozzine di case razziate e quattro negozi derubati da oggettini agili e furtivi come topi che però emettevano sommessi ticchettii e ronzii. Un ferroviere ne avvistò uno sfrecciare lungo la strada di notte fonda. L'uomo aveva cercato di prenderlo al volo, ma nel tentativo ci aveva rimesso un indice e un pollice e tamponandosi i moncherini dal sangue aveva atteso l'ambulanza che l'aveva portato al pronto soccorso.

I predoni ticchettanti prediligevano come loro bottino metalli preziosi e parti meccaniche di precisione. Non riuscivo a pensare come Burman o chiunque altro potesse eliminarli una volta per tutte e completamente. Ma Burman lo fece. Usò delle esche come con i topi, io lo aiutavo nelle ricerche, mentre lui consultava una specie di mappa.

«Tutti i rapporti portano a questa strada», asserì Burman. «Qui è stata abbandonata una sveglia che si è messa in funzione all'improvviso. In questa zona due automobili sono state depredate di parti meccaniche. Da qui hanno visto spolette andare e venire. Qui in un raggio di poche decine di metri sono stati sgozzati cinque gatti. E sempre qui vicino sono avvenuti tutti gli altri incidenti».

«Si direbbe che la regina è in questi paraggi, no?» azzardai.

«Proprio!» Guardò la strada vuota e tranquilla fiocamente illuminata dalla luna nascente. Erano le due del mattino. «Presto sistemeremo definitivamente la cosa!»

Attaccò uno spago sottile, ma robusto, a un pezzo di una catenella d'argento, inchiodò il rocchetto al muro e lasciò cadere la catenella sul marciapiede. Anch'io seminai sul selciato dei meccanismi di un orologio rotto. Poi distribuimmo molti ingranaggi e rotelline dentate, pezzi di macchine fotografiche, piccoli ammassi aggrovigliati di filo di rame e molti altri oggetti appetitosi.

Tre ore dopo tornammo con la polizia. Gli agenti erano armati di martelli e mazze, tutti noi avevamo gambali e suole d'acciaio forniti in tutta fretta da un fabbro della zona.

L'esca aveva funzionato. Parecchi spaghi erano stati spezzati dopo essere stati svolti di qualche metro, altri erano ancora intatti. Tutti portavano o indicavano una grata d'acciaio che bloccava l'accesso a una cantina sottostante un magazzino abbandonato. Guardando giù vedemmo diversi fili che scendevano dalla struttura metallica.

Burman diede il via: «Giù!» e ci lanciammo tutti insieme.

Le serrature arrugginite furono spezzate e le porte di legno marcio crollarono sotto i nostri colpi e potemmo attraversare il magazzino ed entrare nella cantina.

Contro la parete c'era un aggeggio simile a una bara che ticchettava incessante e ci guardava inespressiva dalle sue lenti. Era simile alla Madre Robot, ma molto più piccola, circa un quarto della Madre originale. Alla luce delle torce dei poliziotti aveva un'aria minacciosa che incuteva paura. Attorno uno sciame attivissimo di oggetti metallici ronzava e ticchettava frenetica sul pavimento.

Tra sibili irritati e schiocchi dei bisturi che sbattevano contro i nostri gambali fendemmo quella folla di oggetti malefici. Burman fu per primo davanti alla bara e con una martellata terribile la distrusse. Poi la fracassò completamente con una raffica di martellate violente. Alla fine era esausto. La figlia della Madre era morta e con essa anche la sua prole aliena e mostruosa che giaceva inerte.

Burman si lasciò cadere su una cassapanca vecchia e malsicura e si asciugò il sudore dicendo: «Meno male, ce l'abbiamo fatta!»

«Tic tic tic!»

Burman balzò in piedi selvaggiamente afferrando il martello.

Uno dei poliziotti arrischiò: «È il mio orologio! Vale poco e fa molto rumore!» Se lo tolse e lo mostrò a Burman.

L'orologio con sicurezza e dignità meccanica ribatté: «Tic tic tic!»

 

Ed egli costruì una casa deforme

And He Built a Crooked House

Robert A. Heinlein

Astounding Science Fiction , febbraio

 

Robert A. Heinlein continuò a dominare nel mondo della fantascienza anche nel 1941, anno in cui comparve il suo romanzo Methuselah Children. uscito in tre puntate su «Astounding». Ma anche i suoi racconti brevi furono altrettanto eccellenti e questo volume contiene quattro delle sue storie.

And He Built a Crooked House rappresentò un altro contributo innovativo di Heinlein. La qualità di una storia è spesso questione di percezione e naturalmente il punto di vista è un importante ingrediente di tutta la narrativa, ma si sarebbe potuto immaginare qualcosa di questo genere!

 

(Io ho sempre apprezzato l'opera di Bob fin dall'inizio, dalla sua primissima storia, ma devo ammettere che in realtà non l'avevo mai considerato il miglior scrittore di fantascienza che sia mai esistito e non semplicemente uno dei migliorifinché non ho letto questo racconto, così lieve e spumeggiante e intelligente che non sono più riuscito a togliermelo dalla mente. Naturalmente ciò che mi ha colpito subito con violenza è stato l'inizio e il sapere che Bob si era fatto strada fino allo stesso indirizzo a cui viveva a quel tempo. I.A.)

 

In tutto il mondo gli americani sono ritenuti dei pazzi.

E loro ammettono solitamente che l'accusa non è infondata, ma indicano nella California il focolaio dell'infezione. I californiani sostengono che la loro cattiva fama derivi esclusivamente dalla condotta degli abitanti della contea di Los Angeles. Gli angeleni ammettono, se si insiste, che l'accusa è giustificata, ma si affrettano a precisare:

«È Hollywood. Non è affatto colpa nostra; non siamo stati noi a volerlo; è Hollywood che è continuata a crescere.»

La gente di Hollywood non se la prende; anzi, se ne gloria. Se la cosa vi interessa, vi portano in macchina a Laurei Canyon «...dove abbiamo ricoverato i casi più violenti». I canyoniti, e cioè donne dalle gambe abbronzate e uomini in pantaloni corti continuamente occupati a costruire e ricostruire le loro stravaganti abitazioni, considerano con una sfumatura di disprezzo le monotone creature che vivono in appartamenti, e celano in cuore la segreta certezza che loro, e loro soltanto, sanno come si debba vivere.

Lookout Mountain Avenue è il nome di un canyon laterale che si dirama da Laurei Canyon. Gli altri canyoniti non amano che se ne parli; anche per loro ci sono dei limiti.

Proprio in fondo a Lookout Mountain, al numero 8775, viveva Quintus Teal, architetto.

Anche l'architettura è differente nella California meridionale. Salsicciotti caldi sono in vendita in una costruzione eretta in forma di salsicciotto. I coni gelato provengono da un gigantesco cono gelato di stucco; grandi lettere al neon proclamano «Bevete birra!» dai tetti dei palazzi che sono, senz'ombra di dubbio, boccali di birra. Benzina, olio e carte stradali gratuite vengono forniti sotto le ali di aerei da trasporto, costruite in solido cemento, mentre l'albergo diurno autorizzato, ispezionato ogni ora per il vostro benessere, è situato nella cabina dell'aereo stesso. Tutte cose che possono stupire, o divertire, il turista; ma gli abitanti del luogo, che passeggiano a testa nuda sotto il famoso sole californiano di mezzogiorno, le considerano naturalissime.

Quintus Teal giudicava gli sforzi dei suoi colleghi architetti come pavidi, incerti e assolutamente privi di autentica audacia.

«Che cos'è una casa?» chiese Teal al suo amico Homer Bailey.

«Ecco...» fece Bailey cautamente «... parlando in linea di massima, ho sempre ritenuto una casa uno strumento per tenere lontana la pioggia.»

«Sciocchezze! Non sei meglio degli altri.»

«Non ho detto che la mia definizione fosse completa...»

«Completa! Non è nemmeno nella giusta direzione. Con idee simili tanto varrebbe che ce ne stessimo ancora accoccolati in fondo alle caverne dei nostri più remoti antenati. Ma non te ne faccio una colpa,» continuò Teal, magnanimo «non sei peggio dei vermiciattoli che frequentano la facoltà di architettura. Perfino i Moderni, tutto quello che hanno saputo fare è stato abbandonare la Scuola stile Torta Nuziale in favore della Scuola stile Stazione di Servizio e Rifornimento, grattar via la panna montata per appiccicare sulle loro costruzioni un po' di cromo; ma, in fondo all'anima, sono rimasti conservatori e tradizionalisti come in un tribunale di contea. Neutra! Schindler! Che cos'hanno questi vagabondi? Che cos'ha Frank Lloyd Wright che io non abbia?»

«Incarichi e appalti» rispose il suo amico.

«Eh? Che hai detto?» Teal inciampò nel proprio flusso di parole, vacillò per un istante e si riprese. «Incarichi, appalti. Esatto. E perché? Perché io non penso a una casa come a una caverna imbottita e tappezzata; concepisco la casa come una macchina d'abitazione, un processo vitale, una cosa viva, dinamica, che cambia secondo l'umore di chi vi abita, non un morto catafalco statico e ipertrofico. Ma perché dobbiamo lasciarci inceppare dalle concezioni congelate dei nostri avi? Qualunque idiota con un'infarinatura di geometria decorativa può disegnare una casa tradizionale. La geometria statica di Euclide è forse la sola matematica? Dobbiamo gettare completamente alle ortiche la teoria Picard-Vessoit? E dei sistemi modulari, che ne facciamo? Per non dir nulla di tutto ciò che ti suggerisce la stereochimica. Possibile che non ci sia posto in architettura per la trasformazione, la omorfologia, le strutture azionali?»

«Che mi venga un colpo se lo so!» rispose Bailey. «Per me, è lo stesso che parlarmi della quarta dimensione.»

«E perché no? Perché dovremmo limitarci alla... Un momento!» S'interruppe per guardare nel vuoto, con aria assorta. «Homer, credo che tu abbia colpito nel segno. In fin dei conti, perché no? Pensa all'infinita ricchezza di articolazioni e rapporti esistente nelle quattro dimensioni. Che casa! Che casa!...» Rimase in silenzio, immobile, mentre i suoi pallidi occhi sporgenti ammiccavano meditabondi.

Bailey gli scosse il braccio.

«Svegliati, Teal. Di che accidente stai parlando, delle quattro dimensioni? La quarta dimensione è il tempo; non puoi piantar chiodi nel tempo.»

Teal rispose con un'alzata di spalle.

«D'accordo, d'accordo. Il tempo è una quarta dimensione, ma io sto pensando a una quarta dimensione spaziale, come lunghezza, larghezza e spessore. Come economia di materiali e comodità di strutture, non potresti trovare di meglio. Per non parlare poi del risparmio di terreno da costruzione: potresti erigere una casa di otto vani sul terreno normalmente occupato da una casa d'un vano solo. Come un tesseract...»

«Che cos'è un tesseract?»

«Non sei mai andato a scuola, in vita tua? Un tesseract è un ipercubo, una figura quadrata a quattro dimensioni, così come un cubo lo è a tre e un quadrato a due. Ecco, ora ti faccio vedere.» Teal corse nella cucina del suo appartamento e tornò con una scatola di stuzzicadenti e ne sparse il contenuto sul tavolo, spingendo da una parte alcuni bicchieri e una bottiglia quasi vuota di gin olandese.

«Mi occorre della plastilina. Ne avevo in casa un po', la settimana scorsa.» Si mise a frugare in un cassetto della scrivania ingombra d'ogni sorta di cose che occupava un angolo della sala da pranzo, e ritornò con un blocco di creta oleosa. «Ecco qua.»

«Che cosa vuoi fare?»

«Ora ti faccio vedere!» Rapidamente Teal si mise a staccare dei pezzi di creta dal blocco e li arrotolò fino a farne delle palline non più grandi di un pisello, che poi unì per mezzo di uno stecchino in modo da formare un quadrato. «Ecco fatto! Questo è un quadrato.»

«Lo vedo.»

«Un altro come questo, quattro altri stecchini, e noi abbiamo un cubo.» Gli stecchini furono disposti in modo da formare una scatola quadrata, un cubo, con le palline di creta che tenevano insieme gli spigoli. «Ora noi facciamo un altro cubo esattamente uguale al primo, ed entrambi formeranno due lati del tesseract.»

Bailey si accinse ad aiutarlo nell'arrotolare le palline di creta per il secondo cubo, ma si lasciò distrarre dalla consistenza della docile argilla e si dette a lavorarla e a modellarla con le dita.

«Guarda» disse, alzando la mano che stringeva il frutto della sua fatica, consistente in una minuscola figuretta. «Gipsy Rose Lee.»

«Assomiglia di più a Gargantua; ti farebbe causa. Ora, fa' bene attenzione. Tu apri un angolo del primo cubo, agganci il secondo cubo a un angolo e poi chiudi l'angolo. Prendi poi altri otto stecchini e congiungi il fondo del primo cubo al fondo del secondo, di sghembo, e il disopra del primo al disopra del secondo, sempre allo stesso modo.» Cosa che fece rapidamente, continuando a parlare.

«E questo che cosa dovrebbe essere?» domandò Bailey sospettoso.

«Questo è un tesseract, otto cubi che formano i lati di un ipercubo a quattro dimensioni.»

«Per me, ha soprattutto l'aria di una gabbia per conigli. E poi, lì hai soltanto due cubi. Dove sono gli altri sei?»

«Usa un po' d'immaginazione, figliolo. Considera il disopra del primo cubo in rapporto al disopra del secondo: questo è il cubo numero tre. Quindi i due quadrati del fondo, poi la faccia anteriore di ogni cubo, la faccia posteriore, il lato destro, il lato sinistro, e hai otto cubi.» Li indicò con la mano a uno a uno.

«Sì, li vedo. Ma per me continuano a non essere dei cubi; sono dei... come si dice?... sono dei prismi. Non sono quadrati, ma sghembi.»

«È così che li vedi, in prospettiva. Se tu tracciassi il disegno di un cubo su un foglio di carta, i quadrati laterali sarebbero sghembi, non ti pare? È questa la prospettiva. Quando guardi una figura quadridimensionale su tre dimensioni, è naturale che appaia storta. Ma questi sono tutti cubi lo stesso.»

«Forse lo sono per te, mio caro, ma per me continuano a essere delle cose storte.»

Teal non tenne conto dell'obiezione e continuò:

«Ora considera questa come l'ossatura di una casa di otto locali; abbiamo un vano a pianterreno, impianti igienici, elettrici e garage. Abbiamo poi sei locali al primo piano, salotto, sala da pranzo, bagno, camere da letto e così via. E all'ultimo piano, completamente chiuso e con finestre ai quattro lati, c'è il tuo studio. Ecco! Che te ne pare?»

«Mi pare che la vasca da bagno penzoli giù dal soffitto del salotto. Queste camere sono aggrovigliate come una piovra.»

«Soltanto in prospettiva, ti dico, soltanto in prospettiva. Ecco, ora ricorrerò a un altro sistema perché tu possa vedere meglio.» Questa volta Teal fece un cubo di stecchini, quindi ne fece un secondo di mezzi stecchini e lo pose esattamente nel centro del primo, attaccando gli spigoli del cubo piccolo a quello maggiore mediante corti segmenti di stecchini. «Ora, il cubo maggiore è il tuo pianterreno, il cubo minore all'interno è il tuo studio all'ultimo piano. I sei cubi che lo congiungono sono le altre camere del soggiorno. Vedi?»

Bailey esaminò attentamente la figura e poi scosse il capo:

«Io continuo a vedere due cubi, uno grande e uno piccolo. Quelle altre sei cose mi sembrano piramidi, questa volta, invece di prismi, ma per me continuano a non essere cubi.»

«Lo so, lo so, tu le vedi in una prospettiva differente. Possibile che non te ne renda conto?»

«Forse. Ma quella camera nell'interno, là, è completamente circondata da quei cosi. Tu avevi detto che aveva finestre sui quattro lati.»

Le ha, infatti, soltanto sembra che sia circondata. È questa la grande caratteristica di una casa a tesseract: esposizione completa all'esterno per ogni camera e, nello stesso tempo, ogni parete serve due camere e una casa di otto camere richiede soltanto una base d'una camera. È rivoluzionario.»

«È dire poco. Tu sei completamente pazzo, Bud; non puoi costruire una casa di questo genere. La camera interna è all'interno, e là rimane.»

Teal guardò l'amico con una specie di esasperazione trattenuta.

«Sono i tipi come te che costringono l'architettura a rimanere allo stato infantile. Quanti lati quadrati ha un cubo?»

«Sei.»

«Quanti di essi sono interni?»

«Diamine, nessuno: sono tutti esterni.»

«Benissimo. Ora ascolta bene: un tesseract ha otto lati cubici, tutti all'esterno. Ora guardami. Aprirò questo tesseract come tu potresti aprire una scatola cubica di cartone, fino a ridurla piatta. In tal modo sarai in grado di vedere tutt'e otto i cubi.» Lavorando rapidamente, costruì quattro cubi, ponendoli uno sull'altro in una torre vacillante. Poi appiccicò altri quattro cubi ai quattro lati liberi del secondo cubo della pila. La struttura barcollò un poco, ma resistette, otto cubi in una croce invertita, una doppia croce, dato che i quattro cubi aggiunti sporgevano in quattro direzioni. «Lo vedi, ora? Tutta la costruzione poggia sulla camera pianterreno; i sei cubi successivi sono le camere di abitazione; e questo è il tuo studio, proprio in cima.»

Bailey guardò la figura con minore diffidenza.

«Questa, almeno, posso capirla. Dici che è un tesseract anche questo?»

«È un tesseract, dispiegato in tre dimensioni. Per rimetterlo insieme devi ripiegare il cubo più alto nel cubo in fondo, piegare verso l'interno questi cubi laterali fino a farli incontrare con il cubo più alto, e ci sei. Naturalmente, tutti questi ripiegamenti li fai attraverso una quarta dimensione; non storci nessuno dei cubi né li ripieghi uno dentro l'altro.»

Bailey osservò ancora la malferma struttura.

«Stammi a sentire» disse alla fine «perché non lasci perdere l'idea di piegare questa baracca nella quarta dimensione? Non potresti farlo, del resto. Perché non costruisci invece una casa come questa?»

«Che cosa vuol dire "non potrei"? È un semplice problema matematico...»

«Piano, amico. Sarà semplicissimo in matematica, ma non potrai mai ottenere per i tuoi progetti l'autorizzazione a costruire. Non c'è nessuna quarta dimensione; piantala. Mentre questa specie di casa... potrebbe avere i suoi vantaggi.»

Interdetto, Teal studiò il modello.

«Uhm! Forse non hai tutti i torti. Potremmo avere lo stesso numero di vani e risparmiare la quantità corrispondente di terreno. Sì, e potremmo orientare quel piano cruciforme a nord-est, sud-ovest e così via, in modo che ogni stanza sarebbe esposta al sole per tutta la giornata. Quell'asse longitudinale si presta ottimamente al riscaldamento centrale. Metteremo la sala da pranzo a nord-est e la cucina a sud-est, con grandi finestre in ogni camera. Okay, Homer, farò così! Dove vuoi che la costruisca?»

«Aspetta un momento! Non ho detto che dovevi costruirla per me...»

«Ma certo che la costruirò per te. Per chi altro dovrei costruirla? Tua moglie vuole una casa nuova; e avrà questa.»

«Ma mia moglie vuole una casa in stile georgiano...»

«L'ha detto così per dire. Le donne non sanno mai esattamente quello che vogliono.»

«Mia moglie lo sa.»

«Un'idea che qualche architetto sorpassato e codino le ha ficcato in testa. Tua moglie guida un'automobile ultimo modello, no? Indossa abiti tagliati secondo l'ultimissima moda: perché dunque dovrebbe abitare in una casa in stile Settecento? Questa sarà più moderna; anticipa di anni il futuro. Sarà una casa di cui tutti discuteranno.

«Bene... gliene parlerò.»

«Neanche per sogno. Le farai una sorpresa. Bevi ancora un sorso.»

«A ogni modo, non possiamo decidere nulla, per il momento. Mia moglie e io andiamo in macchina a Bakersfield domani. La compagnia inaugura due nuovi pozzi, laggiù.»

«Sciocchezze. È proprio l'occasione che cerchiamo. Sarà una magnifica sorpresa per lei, al ritorno. Basta che mi firmi un assegno adesso, e le tue pene sono finite.»

«Non posso prendere una decisione così importante senza consultarla. Non sarebbe contenta di trovarsi di fronte al fatto compiuto.»

«Stanimi a sentire: chi porta i calzoni in casa tua?»

L'assegno fu firmato verso la metà della seconda bottiglia.

 

Le cose si fanno alla svelta, nella California meridionale. Le case normali vengono su nel giro di un mese. Sotto l'appassionato impulso di Teal, la casa a tesseract salì rapidissima al cielo in giorni, più che in settimane, e il suo primo piano cruciforme venne ben presto a salutare i quattro angoli del mondo. L'architetto aveva avuto in un primo tempo qualche seccatura con gli ispettori del genio civile per quelle quattro stanze proiettate verso l'esterno, ma con l'uso di robuste travi maestre e di banconote in busta chiusa era riuscito a convincerli della solidità della sua costruzione.

Come d'accordo, Teal arrivò in macchina davanti all'abitazione dei Bailey la mattina successiva al loro ritorno in città. Improvvisò un'arietta sul suo clacson a due note. Bailey sporse il capo fuori della porta d'ingresso.

«Perché non suoni il campanello?»

«Troppo lento» rispose Teal. «Sono un uomo d'azione, io. È pronta tua moglie? Oh, eccola qua, signora Bailey! Bentornata, bentornata! Salga in macchina, ho una sorpresa per lei!»

«Tu conosci Teal, mia cara?» disse Bailey a disagio.

La signora Bailey tirò su con il naso.

«Lo conosco. Andremo con la nostra macchina, Homer.»

«Benissimo, cara.»

«Buona idea» disse Teal. «È più potente della mia; arriveremo prima. Guiderò io, conosco la strada.» Tolse di mano a Bailey le chiavi, scivolò al volante e avviò il motore ancor prima che la signora Bailey avesse potuto raccogliere le proprie forze.

«Non si preoccupi del mio modo di guidare» disse in tono rassicurante, voltandosi a guardare la signora e lanciando contemporaneamente la potente macchina per il viale, prima d'imboccare Sunset Boulevard. «È questione di forza e dominio dei propri nervi, un processo dinamico, esattamente il mio pane... Non ho mai avuto un incidente degno di questo nome.»

«Non ne avrà che uno solo» disse la donna in tono acido. «Le spiacerebbe molto tenere gli occhi sulla strada?»

Egli cercò di spiegarle che un problema di traffico non era questione di occhi, bensì d'integrazione intuitiva di direzioni, velocità e probabilità, ma Bailey lo interruppe bruscamente.

«Dov'è la casa, Quintus?»

«La casa?» ripeté lentamente la signora Bailey, con fare sospettoso.

«Che cos'è questa faccenda della casa, Homer? Hai forse combinato qualche cosa senza dirmelo?»

Teal intervenne con il suo miglior tono diplomatico:

«Una casa, lo è di certo, signora Bailey. E che casa! È una sorpresa che un devoto marito ha voluto farle. Aspetti solo di vederla e poi...».

«È quel che aspetto, infatti» disse la donna, tetra. «In che stile è?»

«Questa casa inizia un nuovo stile. È più recente della televisione, più nuova della settimana entrante. Bisogna vederla per apprezzarla. A proposito,» soggiunse in fretta, bloccando così ogni replica «avete sentito il terremoto, questa notte?»

«Il terremoto? Quale terremoto? Homer, c'è stato un terremoto?»

«Oh, una scossa molto leggera,» continuò Teal «verso le due del mattino. Se non fossi stato sveglio, non me ne sarei nemmeno accorto.»

La signora Bailey rabbrividì.

«Oh, questo terribile paese. Hai sentito, Homer? Avremmo potuto restare uccisi nei nostri letti senza neppure saperlo. Perché mi sono lasciata convincere da te a lasciare lo Iowa?»

«Ma, cara,» protestò il marito con aria infelice «sei stata tu a voler venire in California; Des Moines non ti piaceva.»

«Questo non c'entra» rispose lei seccamente. «Sei un uomo; toccava a te prevedere queste cose. Dei terremoti!»

«Ma nella vostra nuova casa non avrete più nulla da temere, signora Bailey» disse Teal. «È assolutamente a prova di terremoto; ogni sua parte è in perfetto equilibrio dinamico con ogni altra.»

«Speriamo. Dov'è questa benedetta casa?»

«Subito dopo la curva. Guardi, c'è il cartello.»

Un grande cartello a freccia, di quelli preferiti dai mediatori di terreni, in lettere così grandi da essere vistose anche per la California meridionale diceva:

 

LA CASA DEL FUTURO!

Colossale! Stupefacente!

Rivoluzionario!

Così vivranno i vostri nipoti!

Architetto: Q. Teal

 

«Naturalmente il cartello verrà tolto» si affrettò a precisare Teal, notando l'espressione della donna «appena avrete preso possesso della casa.» Superò la curva slittando e fermò la macchina con un grande stridere di freni davanti alla Casa del Futuro. «Voilà!» E guardò gli altri due per vedere la loro reazione.

Bailey guardava la costruzione con aria incredula, la signora Bailey con palese avversione. Vedevano una semplice massa cubica, fornita di porte e finestre, ma con nessun'altra caratteristica architettonica salvo alcune decorazioni molto intricate.

«Teal,» disse Bailey con un filo di voce «ma che cosa hai fatto?»

Teal distolse lo sguardo da loro e vide finalmente la casa. L'assurda torre con le quattro camere sporgenti al primo piano non c'era più. Non restava traccia delle sette camere sopra il pianterreno. Non restava che la sola camera basata sulle fondamenta.

«Per tutte le...» urlò. «Mi hanno derubato!»

E si mise a correre come un forsennato.

Ma fu inutile. Sulla facciata o sul retro, era sempre la stessa storia: le altre sette camere erano scomparse, svanite completamente. Bailey lo raggiunse e lo prese per il braccio.

«Spiegati. Come sarebbe a dire, t'hanno derubato? E perché t'è venuto in mente di costruire una cosa simile? Non era questo il patto.»

«Ma io non ho costruito questa roba. Ho costruito quanto avevamo deciso, una casa di otto camere a forma di tesseract dispiegato. Sono rimasto vittima di un sabotaggio, ecco che cosa è successo! Gelosia! Gli altri architetti della città non hanno avuto il coraggio di lasciarmi finire questo lavoro; sapevano che il confronto li avrebbe schiacciati.»

«Quando sei stato qui l'ultima volta?»

«Ieri pomeriggio.»

«E tutto era a posto?»

«Sì. I giardinieri stavano giusto finendo.»

Bailey si guardò intorno: fiori, arbusti, siepi, aiuole, tutto era intatto, impeccabile.

«Non vedo come sette stanze abbiano potuto essere smantellate e trasportate via in una sola notte senza danneggiare il giardino.»

Anche Teal si guardò intorno.

«Già. Non ci capisco nulla.»

La signora Bailey li raggiunse.

«E allora? Mi avete lasciata a meditare un po' da sola? Dato che siamo qui, mi pare che potremmo dare un'occhiata alla casa, sebbene, te lo dico fin d'ora, Homer, io non credo che mi piacerà.»

«Sì, andiamo a dare un'occhiata» disse Teal; e, tirata fuori di tasca una chiave, aprì la porta d'ingresso. «Forse possiamo trovare qualche indizio.»

L'anticamera era in ordine perfetto, le porte scorrevoli che la separavano dallo spazio riservato al garage erano aperte e permettevano di vedere tutta quella parte della casa.

«Qui tutto sembra a posto» osservò Bailey. «Andiamo di sopra e cerchiamo di scoprire che cos'è successo. Dove sono le scale? Hanno rubato anche le scale, adesso?»

«Ma no» rispose Teal. «Sta' a vedere...» Premette un pulsante sotto quello della luce; nel soffitto si aprì un pannello, e una rampa di scale si snodò, leggera ed elegante, calando silenziosamente verso di loro. Era tutta in plastica trasparente e argenteo duralluminio. Teal ebbe un guizzo, come un ragazzino che abbia eseguito con pieno successo un trucco con un mazzo di carte, mentre la signora Bailey si sgelava percettibilmente.

Era davvero una cosa splendida.

«Molto elegante» ammise Bailey. «Però ha l'aria di non portarti da nessuna parte.»

«Ah, capisco» disse Teal, che aveva seguito il suo sguardo. «Il coperchio si solleva automaticamente appena tocchi un certo gradino. La tromba delle scale è un anacronismo, ormai. Andiamo.» Come Teal aveva predetto, il coperchio della scala si ritrasse, consentendo loro di emergere in cima alla rampa, ma non, come si aspettavano, sul tetto dell'unica stanza della casa. Si trovarono ritti al centro di una delle cinque camere che formavano il primo piano del progetto originario.

Per la prima volta in vita sua, Teal non seppe che cosa dire. Bailey, anche lui senza parole, continuava a masticare il suo sigaro. Tutto era perfettamente in ordine. Dinanzi a loro, oltre la porta spalancata e il tramezzo trasparente, c'era la cucina, un complesso che andava al di là dei più sfrenati sogni d'uno chef: metalli leggeri, utilizzazione massima dello spazio, luci indirette, disposizione funzionale. Sulla sinistra la sala da pranzo, convenzionale ma graziosa e accogliente, attendeva gli ospiti, con tutti i mobili in schieramento di parata.

Ancor prima di girare la testa, Teal intuì che il salotto e il soggiorno avrebbero dimostrato la loro concreta e, insieme, impossibile esistenza.

«Be', riconosco che è molto bello» disse la signora Bailey «e la cucina è la cosa più originale che abbia mai visto; ma non avrei certo immaginato dall'esterno che questa casa avesse tanto spazio al primo piano. Naturalmente, qualche cambiamento bisognerà farlo. Quello stipo, per esempio... se noi lo trasportassimo qui e mettessimo la cassapanca là...»

«Lascia stare per un momento, Matilda» la interruppe bruscamente Bailey. «Tu come lo spieghi, Teal?»

«Ma Homer! La sola idea di...»

«Lascia stare, ti ho detto! Dunque, Teal?»

Il lungo corpo dinoccolato dell'architetto si agitò dalla testa ai piedi.

«Preferirei non rispondere. Continuiamo a salire.»

«E in che modo?»

«Così.» Premette un altro pulsante; una copia esatta della passerella che li aveva portati fin là dal pianterreno dava accesso al piano superiore. Salirono i gradini, seguiti dalla signora Bailey che continuava a brontolare, e si trovarono nella stanza da letto principale. Le tapparelle erano abbassate come quelle del piano inferiore, ma la morbida luce diffusa si accese automaticamente. Teal premette subito il pulsante che controllava un'altra rampa di scale, e i tre si affrettarono a salire verso lo studio all'ultimo piano.

«Senti, Teal» disse Bailey, quand'ebbe ripreso fiato. «Perché non saliamo fino alla terrazza sopra questa stanza? Potremmo dare un'occhiata al paesaggio.»

«Ma certo, è una piattaforma-osservatorio.» Salirono una quarta rampa di scale, ma quando l'ultima botola si sollevò per consentire loro di uscire all'aria aperta, i tre si trovarono non sul tetto, ma nella camera a pianterreno da cui avevano cominciato la visita.

Homer Bailey divenne terreo.

«Angeli del cielo!» gridò. «Questa casa è stregata. Andiamocene via subito.» E, afferrata la moglie per un braccio, spalancò la porta e si lanciò fuori.

Teal era troppo preoccupato per badare alla loro fuga. C'era una spiegazione a tutto questo, una spiegazione a cui non credeva. Ma fu costretto a interrompere le sue riflessioni da una serie di urli rauchi provenienti da un punto imprecisato sopra la sua testa. Fece calare la scala e si precipitò al piano di sopra. Bailey, nella camera centrale, era chino sulla moglie che aveva perso i sensi. Teal si rese rapidamente conto della situazione, corse nel bar incorporato nel soggiorno e versò in un bicchiere tre dita di cognac, che poi porse a Bailey.

«Ecco, faglielo bere. Le farà bene.»

Bailey bevve.

«Ma era per tua moglie» protestò Teal.

«Non fare storie» tagliò corto Bailey. «Va' a prenderne un altro!» Teal ebbe la precauzione di berne uno lui stesso, prima di tornare con la dose per la moglie del suo cliente. La donna cominciava appena ad aprire gli occhi.

«Su, su, signora Bailey» disse Teal in tono gentile. «Questo la farà sentire meglio.»

«Io non tocco mai liquori» protestò la donna, e bevve d'un fiato.

«Ora, ditemi cosa è successo» disse Teal. «Credevo che ve ne foste andati tutti e due.»

«Ma ce ne siamo andati... Siamo usciti dalla porta d'ingresso e ci siamo ritrovati qui, nel soggiorno.»

«Ma che diavolo dici! Uhm!... Aspetta un minuto.» E Teal andò nel soggiorno. Là scoprì che la grande finestra panoramica in fondo alla stanza era spalancata. Vi si affacciò cautamente. Non vide il paesaggio californiano, ma l'interno della camera a pianterreno, o qualcosa che le somigliava in ogni particolare. Non disse nulla, ma tornò alla rampa di scale che aveva lasciato aperta e guardò giù. La camera al pianterreno era sempre al suo posto. Chissà come, riusciva a essere in due luoghi diversi contemporaneamente, e a livelli differenti.

Ritornò nella stanza centrale, sedette di fronte a Bailey in una poltrona bassa e profonda e guardò l'amico.

«Homer,» disse in tono drammatico «lo sai che cosa è successo?»

«No, non lo so... ma se non lo scopro al più presto, ti garantisco che qualcosa succederà: e sarà qualcosa di molto spiacevole per te!»

«Homer, questa è la conferma delle mie teorie. Questa casa è un vero tesserart!»

«Ma di che cosa sta parlando, Homer?»

«Un momento, Matilda... Senti, Teal, tutto questo è ridicolo. Non so che imbroglio hai combinato, ma io ne ho abbastanza: hai quasi fatto morire mia moglie dallo spavento e hai reso nervoso anche me. Voglio una cosa sola: andarmene di qua e non sapere più nulla delle tue trappole e dei tuoi stupidi scherzi.»

«Ti prego di parlare per te solo, Homer» esclamò la signora Bailey. «Io non mi sono affatto spaventata; per un momento mi sono sentita come colta da una vertigine. È il cuore, lo sai: tutti in famiglia siamo delicati e impressionabili. Ora, a proposito di questo tesseract... dico, mi faccia il favore di spiegarsi meglio, signor Teal. Parli».

Teal le spiegò come meglio poté, date le numerose interruzioni, la teoria in base alla quale era stata costruita la casa.

«E ora, secondo il mio modesto parere, signora Bailey,» concluse «questa casa, pur perfettamente stabile in tre dimensioni, non lo era nelle quattro dimensioni. Avevo costruito una casa a forma di tesseract dispiegato; le è successo qualche cosa, una specie di vibrazione o di strattone laterale, ed essa è ricaduta nella sua forma normale, si è ripiegata su se stessa.» Fece schioccare a un tratto le dita. «Ho capito! Il terremoto!»

«Il terremoto?»

«Sì, sì, la lieve scossa di questa notte. Da un punto di vista quadridimensionale, questa casa era come un asse in bilico sull'orlo di un precipizio. Una piccola spinta ed è caduta, crollata lungo le articolazioni naturali, in una figura stabile a quattro dimensioni.»

«M'era parso di sentirle vantare la straordinaria stabilità di questa casa.»

«È una casa stabilissima, nelle tre dimensioni.»

«Per me» osservò Bailey in tono tagliente «una casa che crolla al più lieve tremito non è stabile.»

«Ma guardati intorno!» protestò Teal. «Nulla è stato spostato, non s'è incrinato un solo pezzo della cristalleria. La rotazione attraverso la quarta dimensione non può influire su una figura a tre dimensioni più di quanto tu possa staccare le lettere di una pagina stampata. Se tu avessi dormito qui, questa notte, non ti saresti nemmeno svegliato.»

«È proprio questo che mi fa paura. Incidentalmente, il tuo genio ti ha suggerito in che modo noi possiamo uscire da questa trappola criminosa?»

«Come? Oh, sì, certo. Tu e la signora siete partiti per uscire, e invece siete venuti a finire qui. È questo che vuoi dire? Ma sono certo che non ci sono vere difficoltà: se siamo entrati, possiamo anche uscire, non ti pare? Ora lasciami vedere.» Si era già alzato e correva giù per la scala mentre ancora parlava. Spalancò la porta d'ingresso, ne varcò la soglia e si ritrovò davanti ai suoi amici, che lo guardavano dal fondo del salotto al primo piano. «Bene, a quanto pare qualche lieve difficoltà c'è» ammise Teal. «Ma si tratta di difficoltà puramente tecniche... Possiamo sempre uscire da una finestra.» Scostò con uno strattone i lunghi drappeggi che coprivano le porte-finestre profondamente incassate in una parete laterale della sala. Si fermò di colpo.

«Uhm-uhm!» fece. «Ecco una cosa interessante, molto interessante!»

«Che cosa?» domandò Bailey, raggiungendolo.

«Guarda.» Invece che sull'esterno, la finestra dava direttamente sulla sala da pranzo. Bailey indietreggiò fino all'angolo dove il soggiorno e la sala da pranzo si congiungevano alla sala centrale, formando un angolo di novanta gradi.

«Ma non è possibile!» protestò. «Quella finestra è almeno a cinque, forse sette metri dalla sala da pranzo.»

«Non in un tesseract» gli ricordò Teal. «Guarda.» Aprì la finestra e passò oltre, voltandosi indietro per parlare.

Dal punto di vista dei Bailey si limitò semplicemente a scomparire.

Ma non dal suo personale. Gli occorsero alcuni secondi per riprendere fiato. Quindi, con grande cautela, si districò dal cespuglio di rose in cui si era quasi avviluppati, e intanto giurava a se stesso che non avrebbe mai più ordinato in vita sua dei giardini che comprendessero piante con le spine; poi si guardò intorno.

Era uscito dalla casa. La massa cubica della camera a pianterreno sorgeva a pochi passi. Evidentemente era caduto dal tetto.

Girò di corsa l'angolo della casa, spalancò la porta d'ingresso e si precipitò su per le scale.

«Homer!» gridò. «Signora Bailey! Ho trovato il modo di uscire!»

Bailey parve veramente più seccato, che compiaciuto, di vederlo.

«Che cosa ti è successo?»

«Sono caduto verso l'esterno. Sono uscito dalla casa. È una cosa facilissima, basta passare da quelle porte-finestre. Ma attento alle rose: dovremo forse costruire un'altra scala.»

«E come sei rientrato?»

«Dalla porta d'ingresso.»

«E allora noi ce ne andremo per la stessa via. Vieni, cara.» Bailey si piantò il cappello in testa e cominciò a scendere impettito la scala, dando il braccio alla moglie.

Teal li accolse nel soggiorno.

«Avrei dovuto dirti che non bisognava fare così» disse. «Ora, ecco, quello che dobbiamo fare: secondo me, in una figura a quattro dimensioni, un uomo tridimensionale ha due possibilità, ogni volta che deve varcare una linea di congiunzione come una parete o una soglia. Ordinariamente farà una svolta di novanta gradi attraverso la quarta dimensione ma, a causa delle sue tre dimensioni, non se ne accorgerà. Guarda.» Passò dalla stessa porta-finestra da cui era caduto poco prima. L'attraversò e si ritrovò nella sala da pranzo, dove si fermò, continuando a parlare. «Questa volta ho guardato bene dove mettevo i piedi e sono arrivato dove volevo.» Rientrò nel soggiorno. «Poco fa, non ho fatto attenzione; mi sono mosso attraverso lo spazio normale e sono caduto fuori di casa. Dev'essere una questione di orientamento inconscio.»

«Non mi piacerebbe dover dipendere dall'orientamento inconscio, quando apro la porta per prendere il giornale del mattino.»

«Non avrai bisogno di pensarci; diverrà un fatto automatico. Ora, per uscire di casa... signora Bailey, se vuole mettersi qui con le spalle alla finestra e fare un salto all'indietro sono sicuro che si ritroverà in giardino.»

La faccia della signora Bailey espresse chiaramente l'opinione che lei aveva di Teal e delle sue idee.

«Homer,» disse la donna con voce stridula «hai intenzione di rimanere lì impalato, permettendo a quest'uomo di propormi simili...»

«Ma, signora Bailey,» protestò Teal «possiamo assicurarla a una corda e calarla giù con la stessa facilità di...»

«Piantala, Teal» lo interruppe Bailey rudemente. «Dovremo trovare qualcosa di meglio. Né io né mia moglie siamo nati per fare i saltimbanchi.»

Teal rimase per qualche istante perplesso; seguì un breve silenzio, che Bailey ruppe esclamando. «Hai sentito, Teal?».

«Sentito che cosa?»

«C'è qualcuno che parla. Credi che ci possa essere in casa qualcun altro e che magari voglia farci qualche scherzo?»

«Ma neanche per sogno. L'unica chiave l'ho io.»

«Ma io ne sono sicura» confermò là signora Bailey. «Li sento da quando siamo entrati qui. Diverse voci. Homer, non resisto più, è una cosa pazzesca. Fa' qualche cosa.»

«Su, su, signora Bailey,» disse Teal «non si agiti così. Non può esserci nessun altro in casa, ma andrò a fare una piccola ispezione. Tu, Homer, resta qui con tua moglie e tieni d'occhio le camere di questo piano.» Passò dal soggiorno alla camera a pianterreno e, di là, in cucina e in camera da letto. Questo percorso lo riportò al soggiorno lungo un itinerario rettilineo, vale a dire che, camminando sempre diritto, era ritornato al punto da cui si era mosso. «Non c'è nessuno» riferì. «Ho aperto tutte le porte e le finestre, passando... Tutte, meno questa.» Si avvicinò alla finestra di fronte a quella da cui era caduto poco prima e scostò le tende.

Vide un uomo che gli voltava le spalle, quattro camere più in là. Teal spalancò di scatto la porta-finestra e vi si gettò a capofitto, urlando:

«Eccolo là! Ferma, ferma, al ladro!»

L'intruso evidentemente lo udì e si mise a fuggire a precipizio. Teal si lanciò al suo inseguimento con uno scatto simultaneo di tutte le membra indolenzite, attraverso salotto, cucina, sala da pranzo, soggiorno, una camera dopo l'altra; ma, nonostante i suoi strenui sforzi, non riuscì a recuperare parte del vantaggio di quattro stanze che l'uomo aveva in partenza.

A un tratto vide l'intruso scavalcare goffamente, ma senza esitazione, il basso davanzale di una porta-finestra, e perdere nella foga il cappello. Quando Teal giunse finalmente là dove il copricapo era caduto, si chinò a raccoglierlo, lieto di avere una scusa per fermarsi a riprendere un po' di fiato. Tornò poi nel soggiorno.

«Temo che mi sia sfuggito» disse. «A ogni modo, ecco qua il suo cappello, che forse ci permetterà di identificare il nostro amico.»

Bailey prese il cappello, lo esaminò attentamente, quindi con un grugnito lo piantò in testa a Teal. Gli calzava alla perfezione. L'architetto parve stupito, si tolse il cappello, lo osservò. Sulla striscia di pelle interna c'erano le iniziali "Q. T." Era il suo.

Lentamente, un barlume di comprensione illuminò il volto di Teal. Tornò davanti alla porta-finestra e spinse lo sguardo lungo la fuga di stanze attraverso le quali aveva inseguito lo sconosciuto. I coniugi Bailey lo videro agitare le braccia freneticamente.

«Che stai facendo?» domandò Bailey.

«Vieni a vedere.»

Marito e moglie lo raggiunsero e seguirono la direzione del suo sguardo. Quattro camere più in là, videro tre figure di spalle, due uomini e una donna. Il più alto e sottile dei due uomini agitava le braccia in un modo piuttosto buffo.

La signora Bailey lanciò un urlo e svenne di nuovo.

 

Qualche minuto dopo, quando la signora Bailey si fu riavuta, Bailey e Teal fecero insieme il punto della situazione.

«Teal,» disse Bailey «non perderò tempo a rimproverarti; le recriminazioni sono inutili, e sono certo che tutto questo non lo hai voluto; ma spero che tu ti renda conto della gravità della situazione in cui ci troviamo. Come faremo a uscire di qua? A quanto sembra, dovremo rassegnarci a morire di fame; ogni camera porta soltanto in un'altra stanza.»

«Oh, la situazione non è poi così tragica. Dopotutto, sono già uscito una volta, no?»

«Sì, ma non puoi farlo ancora... Hai già tentato.»

«A ogni modo, non abbiamo tentato in tutte le camere. C'è ancora lo studio all'ultimo piano.»

«Già, lo studio. Ci siamo passati quando siamo venuti per la prima volta, e non ci siamo fermati. Pensi che si possa uscire dalle finestre?»

«Non farti troppe illusioni. Matematicamente, dovrebbe aprirsi sulle quattro camere laterali di questo piano. Ma non abbiamo mai alzato le tapparelle; bisognerebbe dare un'occhiata.»

«Male non potrà farci, comunque. Cara, credo che sia meglio per te rimanere qui a riposare un po'...»

«Rimanere sola in questo orribile posto? Ah, no davvero!» E la donna si levò immediatamente dal divano, dove era stata distesa fino a quel momento.

Salirono la scala.

«Questa è la camera interna, vero, Teal?» domandò Bailey mentre attraversavano la stanza da letto principale e riprendevano a salire verso lo studio. «Voglio dire, quella che nel tuo progetto era al centro del grande cubo, completamente circondata.»

«Esatto» confermò Teal. «Bene, diamole un'occhiata. Immagino che questa finestra debba dare sulla cucina.» Afferrò i cordoni delle tapparelle e li tirò con energia.

La finestra non dava sulla cucina. Involontariamente si lasciarono cadere sul pavimento, aggrappandosi al tappeto per non sentirsi precipitare.

«Chiudila! Chiudila!» gemette Bailey.

Dominando solo in parte una primordiale paura, Teal si trascinò verso la finestra e riuscì a far ricadere le tapparelle. La finestra guardava in giù, anziché in fuori, e da un'altezza terrificante.

La signora Bailey era svenuta ancora una volta.

Teal corse a prendere dell'altro cognac, mentre Bailey massaggiava i polsi della moglie. Quando la donna ebbe ripreso i sensi, Teal si avvicinò cautamente alla finestra e sollevò un tantino la tapparella. Irrigidendo le ginocchia, osservò la scena. Si volse verso Bailey:

«Vieni a vedere, Homer. Vediamo se la riconosci.»

«Stai lontano da quella finestra, Homer Bailey!»

«Ti prego, Matilda, starò attento!» Bailey si accostò all'amico e guardò fuori.

«Vedi laggiù? Quello è il Chrysler Building, non c'è dubbio. E laggiù si vede l'East River, e Brooklyn.» Guardavano lungo un lato verticale di un grattacielo altissimo. Quasi quattrocento metri sotto di loro si stendeva una metropoli in miniatura, straordinariamente nitida e viva. «Da quel che posso capire, stiamo guardando in giù, lungo il fianco dell'Empire State Building, da un punto che sembra posto esattamente sopra la torre.»

«Che cos'è? Un miraggio?»

«Non direi, è troppo perfetto. Credo che lo spazio si sia ripiegato qui attraverso la quarta dimensione e noi stiamo guardando oltre la piega.»

«Vuoi dire che in realtà noi non vediamo New York?»

«No, è proprio New York che vediamo. Non so che cosa accadrebbe se scavalcassimo il davanzale di questa finestra, ma io almeno non ho nessuna voglia di provare. Ma che vista! Ragazzi, che vista stupenda! Proviamo dalle altre finestre.»

Si avvicinarono alla finestra vicina più cautamente, e fecero bene; infatti quella che si offerse ai loro occhi era una vista ancora più sconcertante, più sconvolgente di quella che si dominava dall'altezza vertiginosa del grattacielo. Era un semplice paesaggio marino, oceano sconfinato e cielo azzurro... ma l'oceano era dove avrebbe dovuto essere il cielo e viceversa. Questa volta erano preparati, ma furono quasi sopraffatti dalla nausea, alla vista di quelle onde che rotolavano alte sulle loro teste; e abbassarono subito la tapparella, evitando alla signora Bailey una nuova emozione.

Teal guardò la terza finestra:

«Proviamo anche questa, Homer?»

«Uhm! D'altra parte, non saremmo convinti, se non tentassimo. Ma vacci piano, mi raccomando.»

Teal alzò la tapparella di qualche centimetro. Non vide nulla, e allora l'alzò un po' di più: niente. Riprese ad alzarla, fino ad avere la finestra completamente sgombra. Guardarono fuori... Nulla.

Nulla, assolutamente nulla. Che colore ha il nulla? Non diciamo sciocchezze! Che forma ha? La forma è un attributo di qualcosa. Quel nulla non aveva né profondità né forma. Non era nemmeno nero. Era niente.

Bailey masticò il sigaro che aveva in bocca.

«Teal, che cosa significa?»

Per la prima volta, la disinvoltura di Teal venne a mancare.

«Non saprei dire, Homer, non lo so proprio... ma penso che quella finestra bisognerebbe murarla.» Fissò per qualche istante la tapparella abbassata. «Forse abbiamo guardato un punto dove lo spazio non esiste. Abbiamo guardato dietro un angolo quadridimensionale e dietro quell'angolo non c'era niente.» Si stropicciò gli occhi. «Che mal di testa m'è venuto.»

Attesero un po' prima di affrontare la quarta finestra. Come una lettera non aperta, poteva anche non portare cattive notizie. Il dubbio lasciava adito alla speranza. Finalmente la tensione giunse a un punto intollerabile e Bailey tirò egli stesso la corda della tapparella, sfidando le proteste della moglie.

Andò meglio di quel che si aspettassero. Si stendeva dinanzi a loro, fino all'orizzonte, un paesaggio con il lato destro sollevato, e a un livello tale che lo studio sembrava posto a pianterreno. Ma era un paesaggio nettamente ostile.

Un sole torrido, implacabile, folgorava da un cielo color limone. La pianura sembrava riarsa, calcinata, negata alla vita. Ma c'era vita, strani alberi rachitici che alzavano braccia nodose e contorte al cielo. Ciuffi di foglie aguzze crescevano sulle estremità esterne di quelle escrescenze deformi.

«Santo cielo!» ansimò Bailey. «Ma che cos'è quella roba?»

Teal scrollò il capo, gli occhi smarriti.

«E che ne so?»

«Non ho mai visto nulla di simile sulla Terra. Si direbbe un pianeta... Marte, forse.»

«Non so. Ma, capisci, Homer, potrebbe anche essere peggio di quel che crediamo, peggio di un altro pianeta, voglio dire.»

«Come? Si può sapere cosa stai dicendo?»

«Ma sì, potrebbe essere completamente fuori del nostro spazio. Sono sicuro che quello non è affatto il nostro Sole. È troppo luminoso.»

La signora Bailey s'era avvicinata timidamente e stava guardando la scena incredibile.

«Homer,» disse con voce sommessa, timida «quegli alberi sono orribili. Mi fanno paura.»

Il marito le accarezzò una mano.

Teal si mise intanto a trafficare con la corda della tapparella.

«Ma che fai?» domandò Bailey.

«Ho pensato che, se mi sporgessi dalla finestra, potrei dare un'occhiata intorno e scoprire qualcosa di più.»

«E va bene» brontolò Bailey. «Fa' come credi, ma stai attento.»

«D'accordo.» Teal aprì appena la finestra e annusò. «L'aria è normale, almeno.» Dopo di che, spalancò del tutto la finestra.

La sua attenzione fu distolta dal piano che voleva mettere in esecuzione. Un tremito sgradevole, come un primo accenno di nausea, scosse l'intera struttura della casa, e poi si dileguò.

«Terremoto!» dissero tutti e tre insieme. La signora Bailey gettò le braccia al collo del marito.

Teal deglutì, si riprese e disse:

«Stia tranquilla, signora Bailey. Questa casa è più che sicura. Lo sa anche lei che, dopo il moto sismico di questa notte, delle scosse di assestamento sono, di regola, inevitabili.»

Era riuscito ad assumere un'espressione di flemma scientifica, quando venne il secondo scossone. Più che di assestamento, si sarebbe detto di demolizione, tanto fu violento e prolungato.

In ogni californiano, di nascita o di adozione, c'è un riflesso primitivo profondamente radicato. Un terremoto suscita in lui un accesso istantaneo e cieco di claustrofobia, che lo spinge a uscire di casa a qualsiasi costo. Per obbedire a questo istinto, i più altruistici boy-scout sono capaci di calpestare le loro venerabili nonne. È un fatto assodato che Bailey e Teal atterrarono in cima alla signora Bailey. Per cui è lecito ritenere che la donna sia stata la prima a saltare dalla finestra. L'ordine di precedenza non può essere attribuito a un senso di cavalleria verso le donne; si deve supporre che la signora si trovasse semplicemente nella posizione migliore per gettarsi fuori per prima.

 

Ricuperato un po' di sangue freddo, riordinati alla meglio i pensieri, i tre si stropicciarono gli occhi velati dalla sabbia. La loro prima sensazione fu di sollievo al duro e rassicurante contatto con il suolo desertico. Ma subito Bailey notò qualcosa che li fece balzare in piedi e impedì alla signora Bailey di sfogarsi dicendo tutto quello che aveva già sulle labbra.

«Dov'è la casa?»

Era scomparsa. Non ne restava la minima traccia. Si trovavano tutti e tre al centro di quella desolata distesa che avevano visto dalla finestra. Ma, oltre agli alberi deformi, torturati, non c'era nulla da vedere, se non quel cielo giallo e quella luce sulla testa, quel bagliore d'altoforno che era divenuto ormai quasi intollerabile.

Bailey si guardò lentamente intorno, quindi si volse verso l'architetto:

«Dunque, Teal?» domandò con un tono che non lasciava presagire nulla di buono.

Teal si strinse nelle spalle con un gesto rassegnato.

«Vorrei capirci qualcosa. Vorrei sapere anch'io. Fossi almeno certo che ci troviamo sulla Terra...»

«A ogni modo non possiamo rimanere qui. È la morte certa, se restiamo ancora un minuto. In che direzione dobbiamo andare?»

«Ogni direzione è buona. Orientiamoci con il sole. È l'unica cosa da fare.»

 

Avevano arrancato per una distanza indeterminata, quando la signora Bailey chiese di riposarsi. Si fermarono esausti e scoraggiati. Teal bisbigliò all'orecchio di Bailey:

«Hai la minima idea?»

«No... no, nessuna. Di', non senti nulla?»

Teal tese l'orecchio:

«Forse... a meno che non si tratti della mia immaginazione.»

«Parrebbe il rumore di un'automobile. Ma sì, è un'automobile!»

Arrivarono all'autostrada in meno di cento metri. L'auto, quando arrivò, risultò essere un vecchio camioncino ansimante, guidato da un allevatore di bestiame. L'uomo, al loro cenno, si fermò con un lungo stridere di freni.

«Ci siamo smarriti. Può essere così cortese da prenderci a bordo?»

«Certamente. Salite pure.»

«Dove siete diretto?»

«A Los Angeles.»

«A Los Angeles? Ma dico, dove ci troviamo?» domandò, incredulo, Bailey.

«Diamine, siete nel cuore del Parco nazionale degli alberi Yucca.»

Il ritorno fu più avvilente della ritirata da Mosca. I coniugi Bailey erano seduti davanti, a fianco del conducente, mentre Teal, sballottato nel cassone del camion, cercava di proteggersi il capo dal sole. Bailey indusse il bonario allevatore di bestiame a svoltare in direzione della casa a tesseract, non perché volesse rivederla, ma per ritrovare la sua macchina.

L'uomo poi girò l'angolo e i tre si ritrovarono nel punto da dove erano partiti. Ma la casa non c'era più.

Non c'era più nemmeno la camera a pianterreno. Era svanita.

I Bailey, incuriositi loro malgrado, si misero a ispezionare le fondamenta insieme con Teal.

«Sapresti spiegare quest'altra novità, Teal?» disse Bailey.

«Credo che quell'ultima scossa di terremoto abbia fatto scivolare la casa in un'altra sezione dello spazio: avrei dovuto ancorarla alle fondamenta.»

«Non solo questo avresti dovuto fare.»

«Be', non mi sembra che sia il caso di prendersela tanto. La casa era assicurata, e abbiamo imparato un sacco di cose. Ci sono delle possibilità incredibili, amico mio, delle grandi possibilità! Per esempio, in questo momento mi è balenata una nuova idea, veramente rivoluzionaria, per una casa...»

Teal abbassò la testa in tempo. Era sempre stato un tipo dai riflessi pronti.

 

Gabotte

Shottle Bop

di Theodore Sturgeon

Unknown , febbraio

 

Entro la fine del 1941, Theodore Sturgeon aveva già al suo attivo una spettacolare sfilza di racconti. In meno di tre anni si era creato infatti una solida fama ed era ormai considerato un maestro sia nel campo della fantascienza che in quello della fantasy. Assieme a Heinlein, dominava sull'Olimpo degli Anni d'Oro.

Pochi autori avrebbero potuto combinare una tale sensibilità per l'orrore... vedi Bianca's Hands e It.. con un tale talento per la commedia. Questo racconto è uno dei più divertenti di Sturgeon.

 

(Immagino che quando di tanto in tanto un racconto si ritrae nel passato, ma continua a vivere nel ricordo, ci sia la possibilità di fare confusione sul nome dell'autore e si attribuisca una storia allo scrittore sbagliato. Così, noto di frequente che la gente attribuisce a me un racconto di Arthur C. Clarke, il che mi fa piacere, o una delle mie storie a lui, il che solleva la mia indignazione. Ecco qui, però, un caso in cui il colpevole sono io. Io infatti insisto a pensare che Shottle Bop (Gabotte) sia stata scritta da John Collier. Naturalmente mi sbaglio, ma Collier è un autore terribilmente abile nel genere fantastico leggero... e così pure lo è Ted. I.A.)

 

Anche se abitavo proprio al termine dell'isolato, presso l'angolo, non mi era mai capitato di notare in precedenza quel luogo. Ecco l'indirizzo, se vi interessa. «La Gabotte», esattamente nella Decima Strada di New York, fra la Ventesima e la Ventunesima. Lo potreste anche trovare interessante ma forse è meglio che non ne facciate di niente.

Davvero mi impressionò, «La Gabotte». Si trattava di un negozietto con una decrepita insegna che oscillava sinistramente sospinta dalla brezza autunnale, appesa a un airone in ferro battuto. Comunque la oltrepassai, tenendo al centro dei miei pensieri il modo con cui Audrey mi aveva restituito l'anello di fidanzamento che ora si trovava nella mia tasca, perciò ero infinitamente lontano dal pensare a qualcosa come le gabotti. Riflettei che Audrey avrebbe potuto ricorrere a una definizione più cortese di «inutile» per classificarmi e la sua ironica battuta seguente, che nessuno aveva sollecitato, per ribadire che ero un «incompetente psicopatico costituzionale», era gratuitamente roboante. Forse si trattava di una diagnosi che aveva letto da qualche parte, tenuto conto che aveva fatto seguire un «e nemmeno se tu fossi l'ultimo uomo al mondo mi deciderei a sposarti» che costituiva anch'esso un logoro modo di dire.

«Gabotte!» brontolai, fermandomi poi di colpo per domandarmi dove ero andato a trovare una parola tanto strampalata. L'avevo notata su quell'insegna, evidentemente, e l'aveva memorizzata. «Cosa può essere una Gabotte?» mi chiesi, per darmi subito dopo una risposta: «Mah! Torna indietro e vai a guardare». Tornai sui miei passi, percorrendo il marciapiede della Decima, domandandomi che razza di individuo poteva gestire, e con chi sa che tipo di commercio, una simile bottega. Gli affari trattati mi furono svelati dal cartello sulla porta coperta dalla polvere e dalla corrosione del tempo. C'era scritto:

 

SI VENDONO BOTTIGLIE

 

Più sotto, scritta in caratteri più piccoli, c'era un'altra riga. Cancellai la patina di polvere con una manica in modo da riuscire a leggerla

 

con qualcosa all'interno

 

Esattamente:

 

SI VENDONO BOTTIGLIE

con qualcosa all'interno

 

Entrai immediatamente. A volte nelle bottiglie si possono trovare cose sensazionali e a me, con lo stato d'animo che mi ritrovavo, occorreva qualcosa di eccezionale.

«La porta!» Il grido si levò appena ero entrato. Proveniva da un uovo lucente che si muoveva nell'aria, dietro il banco di vendita. Osservando più attentamente notai che non si trattava di un uovo bensì di un cranio completamente calvo di un tizio molto avanti con gli anni, sistemato dietro quel banco di vendita, con il fisico scarnito che si muoveva sotto la spinta della lieve corrente d'aria che veniva dalla porta, come se all'interno avesse delle bolle d'aria. Con il piede accostai la porta, non senza stupore. Allora il vecchietto volse la testa e venne innanzi, con il volto illuminato da un sorriso.

«Come sono contento di rivederla», fece gracchiando. Penso che anche la sua gola avesse una patina di polvere. Come tutto, lì dentro. Ora che la porta era chiusa mi pareva di trovarmi in un grande cervello impolverato che avesse appena serrato le palpebre. Certo, di luce all'interno ce n'era a sufficienza ma non si trattava né di luce artificiale né di luce solare. Pareva quasi... quasi una luce riflessa sul pallido volto di un cadavere. L'effetto era di mio gradimento, anche se non so il perché.

«Come sarebbe a dire "rivederla"? Lei non mi ha mai visto prima», constatai con fare irritato.

«L'ho vista quando è entrato, quindi mi sono girato, infine ho guardato ancora e l'ho rivista, puntualizzò sorridendo. «Cosa posso refa per lei?»

«Cosa?» chiesi. Poi tradussi la sua espressione in «Cosa posso fare per lei?»

«Ecco, ho notato il cartello sulla porta. Cosa ha infilato nelle bottiglie che possa interessarmi?»

«Lei cosa vorrebbe?»

«Cosa c'è dentro?»

Lui cominciò a sgranare una filastrocca che ricordo ancora, esattamente.

 

Per mezzo centone, notizie buone

oppure una fiala di bugie e di bolle,

un fiasco di allegria, la bella che hai visto per via

serviti per cena con riso e cipolle.

 

Se verso una goccia da questa caraffa

anche sotto la pioggia all'asciutto sarai;

ho fiaschi di forza per vincer le corse

e pozioni per tenerti lontano dai guai.

 

Ci sono genietti in bottiglia e pacchetti

di risate e aragoste pescate in montagna;

poi estratto di saggio per farsi coraggio

e sugo del trono dei Grandi di Spagna.

 

Con corna di drago pestate da un mago

cercare una moglie è comoda impresa;

se cerchi lavoro o desideri oro

domanda e l'avrai con pochissima spesa.

 

«Aspetti un momento! Vorrebbe forse dirmi che vende sangue di drago, inchiostro per la penna di Padre Dante e altre simili sciocchezze?»

Annuì, facendo tentennare la sua strana testa, mentre un sorriso a tutti denti era stampato sul suo volto.

«Ma è davvero roba genuina?» chiesi.

Lui continuò ad annuire.

Lo fissai per qualche istante. «Insomma», dissi poi, «lei vuole convincermi che se ne sta qui con un sorriso sulle labbra e la sua pelata all'aria, oggi, in questo secolo, nella nostra città ed alla luce del sole, a mollare in giro questi bidoni? E crede anche che uno come me, un tipo istruito, moderno, un...»

«Uno sciocco presuntuoso», fece lui pacatamente.

Gli lanciai un'occhiata da incenerirlo e mi diressi verso la porta... e rimasi paralizzato. Letteralmente paralizzato. L'ometto aveva afferrato un antiquato spruzzatore a pompetta e mentre gli giravo le spalle mi aveva schizzato addosso un paio di spruzzi così che, il cielo m'assista, non potevo più fare un passo! Mi era solo consentito imprecare e non mancai di farlo.

Il negoziante balzò oltre il banco di vendita e si diresse verso di me. È certo che sino ad allora doveva essere rimasto in piedi sopra una cassa dal momento che, vedendolo tutto intero, potei notare che non arrivava ad un metro di altezza. Mi afferrò per la giacca, mi balzò sulla schiena, planò all'indietro lungo il braccio che mi era rimasto teso in avanti. Quindi mi si pose seduto sul polso, ridendomi in faccia e facendo dondolare le gambe avanti e indietro. Non aveva alcun peso, da quello che mi risultava.

Quando terminai di imprecare — ed è un mio motivo di orgoglio non ripetere mai la stessa imprecazione — quello cominciò a dire: «Mio incosciente e vanesio amico, non ti fa capire niente questa dimostrazione? Si tratta di un olio concentrato estratto dai capelli della Gorgone. Fin quando non ti darò l'antidoto, te ne rimarrai bloccato qui, da ora sino ad una manasetti da martedì venturo!»

«Lasciami andare o ti mollo una sberla così forte da farti schizzare il cervello fuori dalla punta dei piedi!» ringhiai.

Lui prese a sghignazzare.

Tentai di nuovo di muovermi ma non ci riuscii: mi sembrava di essere stato scolpito nell'acciaio. Allora, seppure senza speranza, ripresi ad imprecare.

«Sei troppo borioso», fece il padrone della Gabotte. «Pensaci, non ti prenderei nemmeno per pulire i vetri. Ma come, desideri sposare una ragazza avvezza ad un minimo di comodità animali e poi ti arrabbi se non ne vuole sapere di te. Ma perché non ne vuole sapere? Perché sei un disoccupato cronico. Un incapace. Tu sei un fallito. Ah! Ah! Eppure hai la prosopopea di andare in giro a dire alle neperso ciò che devono refa? Ecco, se fossi in te, in una situazione come questa, supplicherei umilmente di essere liberato e poi cercherei se nella bottega c'è qualcuno tanto generoso da vendermi una bottiglia contenente qualcosa capace di togliermi dai guai».

Non è mia abitudine chiedere scusa a qualcuno, nemmeno sono un tipo arrendevole e tantomeno mi faccio turlupinare da un negoziante. Qui però le cose stavano diversamente. Prima di quel momento non ero mai stato paralizzato e nemmeno mi avevano fatto sbattere il muso su una verità nuda, cruda, scottante. Così annuii. «Okay, sono d'accordo. Ed ora mi liberi che acquisterò qualcosa».

«No, lei è ancora troppo prepotente», fece l'ometto con tono blando, lasciandosi scivolare con leggerezza sul pavimento e continuando a tenermi di mira con lo spruzzatore. «Deve dire "Per favore, la prego". Lo dica».

«Per favore, la prego», mormorai a stento, ansimando per la vergogna.

Se ne andò dietro il banco di vendita, quindi tornò verso di me e mi fece annusare le polveri da una bustina. In breve presi a sudare e la rigidità scomparve così velocemente dalle mie membra che per poco non mi trovai lungo disteso sul pavimento. L'omettino fu lesto a sorreggermi e mi condusse sino ad una sedia. Fu quando mi sentii tornare le forze che pensai come sarebbe stato eccitante fare polpette di quel dannato nanetto che mi aveva umiliato con un simile tiro mancino. Tuttavia mi sentii bloccare da uno strano pensiero... strano perché non mi era mai capitato un fatto del genere prima di quel momento. Si trattava della semplice constatazione che, una volta in suo potere, ero stato costretto a concordare con lui di essere una nullità.

Lui non era affatto preoccupato. Si mise a cercare fra gli scaffali sfregandosi le mani soddisfatto.

«Domanda: cosa può essere adatto a lei? Uhm... il successo non potrebbe giustificarlo facilmente. I soldi? Non saprebbe come usarli. Un ottimo lavoro? Non fa per lei». Mi fissò con sguardo comprensivo prima di fare un cenno negativo con la testa. «Davvero un caso triste!» Mi sentivo fremere. «Una moglie ideale? Macché, lei è troppo ottuso per essere capace di apprezzarla, troppo egoista per comprenderla. E allora che cosa... aspetti un momento!»

Dai numerosi scaffali che aveva di fronte afferrò quattro o cinque fra bottiglie e caraffe quindi sparì in una delle zone buie del negozio. Subito dopo echeggiarono rumori di ogni genere che testimoniavano un frenetico lavoro... si udiva tintinnare, scricchiolare e rimbalzare qualcosa, quindi il rumore di quello che pareva il battere attutito di un pestello dentro al mortaio ed ancora il gocciolio di un liquido melmoso, poi una pausa di silenzio ed infine il classico gorgoglio di una bottiglia che è stata riempita. Quando il nanetto tornò a mostrarsi reggeva fra le mani, in modo trionfale, una piccola bottiglia priva di etichetta.

«Questo è perfetto!» esclamò esultante.

«Perfetto per cosa?»

«Ma per curarla, è logico!»

«Curar...» Avevo ripreso il mio atteggiamento arrogante, come lo aveva classificato Audrey, mentre l'ometto mescolava l'intruglio. «Ma cosa significa? Io sto perfettamente bene, non ho niente!»

«Mio caro giovanotto, lei ha sicuramente qualcosa che non funziona», disse l'omino con tono velenoso. «Si è mai sentito felice? No di certo, pertanto io porrò rimedio a questa situazione, vale a dire che le darò quell'energia di cui ha necessità. Ma lei dovrà collaborare, come è necessario per qualsiasi cura. Si è messo su una brutta strada, giovanotto. Lei è affetto da quella che la terminologia professionale definisce metempsicosi regressiva dell'ego, nel suo corso maggiormente nocivo. Lei è inutilizzabile per temperamento, un classico sociofago. Non mi è simpatico. Non lo è a nessuno».

Mi pareva di essere sotto il fuoco del nemico e balbettai: «Co... cosa vuole fare?»

Mi pose la bottiglia fra le mani. «Vada a casa e si trinceri in una stanza... più piccola è, tanto meglio è. Beva il contenuto direttamente dalla bottiglia, tutto. Quindi aspetti gli effetti. Non c'è altro».

«Che cosa... potrà farmi?»

«Non farà nulla, a lei. Ma questa sostanza farà molto per lei. Può fare per lei tutto ciò di cui avrà desiderio. Ora mi ascolti bene: fino a quando la userà per migliorare se stesso andrà tutto nel migliore dei modi. Ma provi ad usarla per esibizionismo, per vanità o per vendicarsi e patirà tutto il male possibile. Se lo tenga bene a mente».

«Ma di cosa si tratta? È forse...»

«Le sto facendo acquistare una facoltà, dal momento che ora non ne possiede. Quando scoprirà di quale capacità si tratta, starà a lei usarla nel migliore dei modi. Ed ora se ne vada fuori dalle scatole. Non mi è ancora simpatico».

«Quanto costa?» feci, completamente frastornato.

«Il costo è incluso nella bottiglia. Non dovrà pagare nulla se seguirà le mie istruzioni senza errori. Ed ora se ne vuole andare o devo stappare qualche bottiglia di spiriti? Tenga presente che per spirito non intendo riferirmi all'alcool dei liquori!»

«Me la filo», affermai. Ad un lato del banco di vendita avevo notato qualcosa agitarsi nel fondo di una damigiana da cinquanta litri e non mi aveva procurato una sensazione affatto piacevole. «Arrivederci». Conclusi.

«Vederciarri», rispose.

Me ne andai fuori, percorsa la Decima Strada girai nella Ventesima e neppure una volta provai a guardarmi indietro. Nemmeno ora mi pento di non averlo fatto per molteplici ragioni, la più certa delle quali è che sicuramente c'era qualcosa di molto inconsueto in quella Gabotte.

 

Fino a quando posi piede in casa non mi riuscì di calmarmi ma non appena mi misi nello stomaco una buona tazza di caffè all'italiana, mi sentii di nuovo in forma. Cominciai a dubitare. Ero perfino tentato di ridere delle mie paure, tuttavia il tentativo non mi riuscì. Osservai con sguardo sprezzante la bottiglia, lì dentro mi sembrò che qualcosa mi stesse fissando a sua volta. Sospirando la infilai in cima all'armadio, dietro una serie di vecchi cappelli, quindi assunsi la mia posizione di riposo a cui mi ero abituato e che era la mia preferita. La eseguo puntando i piedi contro il pomello della porta e lasciandomi scivolare giù nella poltrona fino a quando mi trovo seduto sulle scapole, allora, come si usa dire, «a volte mi metto a pensare ed altre volte mi limito a mettermi». È abbastanza facile mettersi a pensare ed è una condizione da cui deve passare anche uno scioperato prima di arrivare alla seconda e ben più piacevole situazione. Occorrono anni di pratica per rilassarsi a tal punto sino a «limitarsi a mettersi». Io ci sono riuscito anni or sono.

Quando ero ormai sul punto dell'oblio avvertii qualcosa che cercava di attirare la mia attenzione. Tentai di non farci caso. Mostrai una indifferenza addirittura aliena tuttavia la cosa insisteva con una lieve pressione sul mio gomito posato sopra il bracciolo della poltrona. Compresi, mio malgrado, che dovevo riemergere dall'oblio per rendermi conto di cosa si trattava anche se ciò mi costringeva all'azione più fastidiosa che potesse esistere. Finalmente, con un profondo sospiro mi decisi, sollevai le palpebre e guardai.

Si trattava della bottiglia.

Serrai gli occhi per un attimo e poi guardai di nuovo: la bottiglia si trovava ancora lì. L'armadio aveva la porta aperta, nel modo in cui l'avevo lasciata con il ripiano quasi su di me. Evidentemente era caduta. Riflettei: se quella diabolica bottiglia andava a finire sul pavimento non sarebbe più potuta cadere, così con il gomito la spinsi giù dal bracciolo.

Cadde sul pavimento e rimbalzò come una palla. Lo fece con tanta incredibile precisione che andò a finire proprio nell'identica posizione da cui era caduta e cioè sul bracciolo della poltrona, accanto al mio gomito. Incredulo, la spinsi giù con forza; un colpo sufficientemente violento da mandarla ad infrangersi contro il muro. Invece rimbalzò contro di esso, andò a finire sotto il tavolino e da lì di nuovo sul bracciolo... depositandosi tranquillamente accanto alla mia ascella. A causa di tutti quei colpi il tappo era saltato via e mi era rotolato sulla pancia. Balzai a sedere, annusando l'odore agrodolce che usciva dalla bottiglia mentre mi sentivo impaurito e rincretinito al massimo.

Afferrai la bottiglia ed annusai. Quell'odore lo avevo già sentito in precedenza... ma dove? Certo, a Frisco: l'odore del rimmel che veniva usato dalle danzatrici di avanspettacolo cinesi. Il liquido aveva una colorazione scura, tipo nerofumo. Lo assaggiai con cautela. Non era male. Però, se quello non conteneva alcool, voleva dire che il proprietario della bottega aveva fatto una mistura con qualcosa che somigliava molto all'alcool. Dopo un secondo assaggio il sapore mi risultò ancora più gradevole, al terzo ne fui affascinato e non ne potei fare un quarto perché la bottiglietta era ormai vuota. Fu allora che ricordai il nome dell'ingrediente scuro con quell'odore singolare. Kohl. Si tratta di un'erba usata dagli orientali per essere in grado di visualizzare gli spiriti. Banali superstizioni!

Allora la mistura che avevo appena finito di bere e che aveva raggiunto il mio stomaco calda e piacevole, cominciò a gorgogliare e sibilare. Ebbi l'impressione che cominciasse ad espandersi. Inutilmente cercai di procurarmi dei conati di vomito per sbarazzarmene. Vidi la stanza ondeggiare, mi parve che si sgretolasse ed i frammenti mi cadessero addosso. Poi persi i sensi.

 

Sono pronto a scommettere che nessuno di voi è rinvenuto come è accaduto a me. Andateci piano, per il vostro stesso bene, con faccende come queste, potreste emergere da un sonno vischioso e mettervi a guardare attorno a voi tutte quelle cose che volteggiano, si muovono, fluttuano, strisciano, rotolano, brulicano... robe leggere da cui sgocciola il sangue, creature eteree prive di gambe, pezzi e frammenti di corpi umani. Terribile. Vicino al mio naso c'era una mano che fluttuava: mi dimenai in preda al terrore e la mano sfarfallò più in là, con le dita che ondeggiavano nell'aria solcata dal mio respiro ansimante. Poi una cosa dura e raschiante venne fuori da sotto la poltrona e prese a rotolare sul pavimento. Udii un lieve click e fissai un paio di mascelle digrignanti prive di faccia. Mi lasciai scivolare a terra e mi pare che presi ad ululare prima di perdere i sensi per una seconda volta.

Quando tornai alla coscienza doveva essere trascorso diverso tempo poiché era giorno fatto ed il mio orologio, così come la sveglia, erano fermi. La situazione pareva migliorata. Certo, potevo ancora scorgere attorno alcune mostruosità ma, non capisco perché, non mi impressionavano più molto. Forse stavo diventando matto perciò di cosa dovevo preoccuparmi, dal momento che ne ero quasi sicuro? Regolare, no? A calmarmi in quel modo doveva essere stato uno degli ingredienti messi nel liquido. Mi sentivo incuriosito, su di giri, ma niente di più. Volsi lo sguardo at torno e rimasi contento di ciò che vedevo.

Le pareti erano verdi! La tappezzeria scura si era tramutata in qualcosa di tanto formidabile da togliere il respiro. Pareva muschio, tuttavia nessuno al mondo si era mai trovato davanti ad un muschio come quello. Era grosso, alto, mosso da una continua ondulazione... non perché fosse sotto la spinta del vento ma perché era come se si stesse sviluppando. Mi ci feci vicino sbalordito e osservai attentamente. Senza dubbio stava crescendo in un rinnovarsi di spore, cellule, radici ed ancora spore... l'immediato magico risultato di quella visione era solo un elemento di tutto il fenomeno poiché non mi risultava che fosse mai esistita una simile tonalità di verde. Tesi una mano per afferrarlo e tirarlo via ma ciò che sentii sotto le mie dita era soltanto carta. Poi, quando strinsi la mano, avvertii con il palmo una leggera pressione, il tocco di venti raggi solari, la tenue elasticità dell'oscurità più fitta in una stanza chiusa. Provavo una sensazione di delizioso piacere così intenso che non sono mai stato tanto felice come in quel momento.

Sul pavimento si stendeva un manto erboso su cui spuntavano funghi prosperosi: una massa di viti fiorite si arrampicava fuori dalle ante dell'armadio, con i petali splendenti di colori irripetibili. Mi sembrava di essere uno che sino ad allora era stato cieco e pure sordo, poiché ora mi era possibile sentire il ronzio di trasparenti insetti rosso fuoco fra le foglie ed il continuo rumore dello sviluppo. Un nuovo mondo affascinante sorgeva attorno a me, tanto delicato che i petali dei fiori cadevano per gli spostamenti d'aria causati dai miei movimenti eppure tanto concreto e naturale da sfidare la sua stessa impossibilità di esistere. Stupefatto, mi muovevo senza sosta, andando da una parete all'altra, sbirciando sotto i miei vecchi mobili, all'interno dei miei logori libri e dovunque guardavo mi sorprendevo sempre di più per le nuove e incredibili scoperte che facevo. Mentre ero lungo disteso a guardare una colonia di lucertole splendenti come gioielli, che aveva fatto il nido nella rete metallica del letto, sentii improvvisamente dei singhiozzi.

Quella voce, giovanile e triste, non aveva motivo di echeggiare nella mia stanza dove tutto era un inno di gioia. Mi volsi in giro e vidi seduta in un angolo un'esile bambina. Stava appoggiata contro la parete, tenendo incrociate le piccole gambe mentre in una mano stringeva tristemente per una zampa un elefantino di pezza a brandelli. Aveva capelli lunghi e neri che le scendevano scarmigliati sul volto e sulle spalle.

«Cosa ti sta capitando, bambina?» le chiesi. Non mi è mai piaciuto sentire piangere in quel modo i bambini.

Si fermò a metà di un singhiozzo, tirò via i capelli da sopra gli occhi, fissando lo sguardo sopra e più in là di me, pallida, impaurita, con gli occhi violetti colmi di lacrime. «Oh!» gridò.

«Che ti sta succedendo? Perché piangi?» dissi di nuovo.

Assunse un atteggiamento sulla difensiva, si serrò l'elefantino contro il petto e prese a gemere: «Do... dove sei?»

«Ma proprio qui, davanti a te, bambina. Non mi vedi?» risposi stupito.

Lei scosse la testa. «Ho paura, chi sei?»

«Non intendo farti del male. Ho sentito che piangevi e così mi sono chiesto se potevo aiutarti. Non riesci sul serio a vedermi?»

«Sul serio», mormorò. «Sei un angelo?»

Mi venne da ridere. «Assolutamente no!» Mi feci vicino a lei e allungai una mano per posargliela su una spalla. Invece attraversai il suo corpo con la mano e la bambina, lanciato uno strillo, trasalì e indietreggiò. «Sono spiacente», dissi subito. «Non volevo... sei certa di non riuscire a vedermi? Io ti vedo».

Fece un cenno di negazione. «Tu sei un fantasma», disse.

«Proprio per niente! E tu cosa sei?» chiesi.

«Sono Ginny, devo restare qui e non ho alcuno con cui giocare», rispose lei sbattendo le palpebre, sul punto di piangere ancora.

«Da che parte sei arrivata?» le domandai.

«Sono venuta con mamma», disse lei. «Siamo state in tante stanze differenti. Mamma puliva i vetri degli uffici nei palazzi. Ma è qui che mi sono sentita male. Sono stata tanto malata. Un giorno mi sono alzata dal letto e sono venuta sin qui ma quando mi sono girata a guardare mi trovavo ancora a letto. Era tanto divertente. Poi sono arrivati degli uomini con una cosa lunga dove hanno messo "me" che ero sul letto e l'hanno portata via. Qualche tempo dopo anche mamma è andata via. Prima di andarsene ha pianto a lungo e anche se la chiamavo non riusciva a sentirmi. Lei non è mai più tornata ed io devo restare qui in tutti i modi».

«Perché?»

«Lo devo fare. Io... non lo so il perché, so soltanto che devo farlo».

«Ma cosa fai qui?»

«Io... resto qui e penso tanto. Una volta è stata qui una signora, con una bambina come me. Giocavamo sempre insieme poi un giorno la signora ci ha scorte ed ha detto qualcosa di terribile. Ha affermato che la sua bambina era posseduta così lei ha preso ad invocarmi: "Ginny! Ginny! Devi dire alla mamma che esisti!", io ho tentato ma la signora non riusciva a scorgermi. Poi la signora ha avuto paura e piangendo ha preso la bambina; a me è tanto dispiaciuto. Così sono venuta a nascondermi in questo angolo e dopo un po' credo che l'altra bambina si sia scordata di me. Infine se ne sono andate», terminò tristemente.

Mi sentivo commosso. «Cosa sarà di te, Ginny?»

«Non lo so», rispose preoccupata. «Penso che resterò qui, niente altro, in attesa che mamma ritorni. É tanto tempo che sto qui ma credo anche di meritarmelo».

«Perché, bambina?»

Si guardò la punta delle scarpe con fare colpevole. «Quando mi trovavo a letto malata mi sentii troppo male per riuscire a stare ferma. Così mi alzai prima del tempo. Invece dovevo restare lì. Perciò sono stata punita. Ma vedrai che la mamma tornerà».

«Sicuro che tornerà», affermai. Mi sentivo un nodo alla gola. «Stai sicura, bambina. E quando avrai desiderio di parlare con qualcuno non dovrai fare altro che un fischio e io parlerò con te ogni volta che sarò qui».

Lei sorrise ed era stupendo vederla. Proprio un brutto guaio per un bambino. Presi il cappello ed andai fuori.

 

Per me stare fuori o in casa era lo stesso. I corridoi, i tappeti polverosi delle scale avevano nuovi abiti lucenti tessuti con un fogliame quasi intangibile. Non erano più oscuri, poiché ogni foglia luccicava con una propria lieve e differente luminosità. A volte scorgevo cose meno gradevoli. Un essere ghignante correva su e giù lungo il corridoio del terzo piano: anche se poco distinguibile, somigliava dannatamente a Barrelhead Brogan, un lentigginoso irlandese tornato da un furto in un magazzino, quasi un anno prima, appena in tempo per spararsi accidentalmente con la sua stessa pistola. A me non era affatto dispiaciuto.

Al primo piano scorsi una coppietta seduta sull'ultimo gradino. La ragazza aveva la testa posata su una spalla del giovane che se la teneva stretta fra le braccia. Riuscivo a scorgere la ringhiera attraverso i loro corpi.

Mi fermai per ascoltare: le loro voci erano tenui come se giungessero da una grande distanza.

«C'è un solo modo per venirne fuori,» stava dicendo il giovane.

«Non dire così, Tommy!» rispose lei.

«Cosa possiamo fare d'altro? Ti amo da tre anni e ancora non ci è possibile sposarci. Niente denaro, nessuna speranza... niente di niente. Sue, sento che potremo vivere insieme per sempre, se lo facciamo. Per sempre...»

La ragazza rispose dopo una lunga pausa di silenzio. «D'accordo, Tommy. Fai come vuoi, prendi una pistola». Gli si strinse al petto, ancora più forte. «Tommy, sei davvero certo che potremo stare uniti così, per sempre?»

«Per sempre, così per sempre», annuì il giovane. Poi la baciò.

Vi fu una nuova pausa di silenzio mentre tutto era pervaso dall'immobilità. D'un tratto i due tornarono ancora nella posizione in cui li avevo visti all'inizio.

«C'è un solo modo per venirne fuori», disse il giovane.

«Non dire così, Tommy!» rispose lei.

Ed egli replicò: «Cosa possiamo fare d'altro? Ti amo da tre anni ed ancora...» e proseguiva a ripetere ciò che aveva già detto, nella sequenza precedente ed ancora, ancora, ancora. Mi sentii un intruso. Scesi in strada.

 

Cominciai a realizzare quanto era accaduto. L'ometto del negozio l'aveva chiamata una «facoltà». Non potevo essere impazzito. Non mi sentivo un folle. La mistura della bottiglia mi aveva fatto vedere un nuovo mondo. Ma di che mondo si trattava?

Un luogo abitato da fantasmi. Non mancava alcuno: spettri evocati dai libri di racconti, fantasmi in perfetta regola, disgraziate anime dannate, tutto ciò che componeva la letteratura del soprannaturale, tutto ciò di cui si è udito parlare, di cui ridiamo, fra la gente, ma che in cuor nostro ci fa riflettere. Ma con questo? Cosa aveva in comune tutto quanto con me?

Mi preoccupavo sempre meno di quel nuovo ed inconsueto ambiente, via via che il giorno passava e riflettevo sempre più sul significato, sul perché, su quale legame mi univa all'incredibile. Avevo comprato, o mi era stata imposta, una facoltà. Mi era possibile vedere i fantasmi. Potevo scorgere ogni particolare di un ambiente abitato dai fantasmi, perfino la vegetazione che vi sorgeva. Tutto ciò era perfettamente logico... gli alberi, gli uccelli, i funghi, i fiori. Un mondo fantasma non può essere diverso per costituzione da quello che conosciamo e quello che conosciamo ha una vegetazione. Poi, io li potevo vedere. Ma loro non riuscivano a vedermi!

Allora, cosa ne potevo dedurre? Logico. Non mi era possibile parlarne o scriverne perché nessuno mi avrebbe creduto e poi, perché tirarci dentro un sacco di altra gente?

E in cosa, poi?

A meno che non mi venisse in mente una buona idea, non riuscivo a trovare alcuna possibilità di guadagno. Infine, dopo circa sei giorni da che avevo ingoiato quella facoltà rivelatrice, mi venne in mente l'unico luogo dove mi sarebbe stato possibile ottenere un consiglio.